Chi si sorprende per il fatto che Ursula von der Leyen tergiversi sulla proposta dei 27 membri della sua commissione e rinvii alla prossima settimana la presentazione della lista, ha dimenticato cosa accadde alla presidente della commissione nella scorsa legislatura. Il Parlamento Europeo rifiutò la nomina di 3 dei suoi 27 candidati commissari, e soltanto dopo le sostituzioni, il 27 novembre 2019 approvò la squadra che entrò in funzione il 1 dicembre, con più di due mesi di ritardo.
Fecero certamente scandalo i veto, per corruzione e conflitto d’interessi, sulla rumena Rovana Plumb sostenuta dal gruppo Socialisti e Democratici, e l’ungherese László Trócsányi sostenuto dai Democristiani, ma il maggior clamore venne dal braccio di ferro su Sylvie Goulard, già ministro della difesa francese, candidata da Macron, protagonista, all’epoca con Angela Merkel, della coppia cocchiera dell’Unione Europea. Goulard era donna e liberale, caratteristiche premianti nel mainstream unionale; non casualmente von der Leyen le aveva affidato il portafoglio chiave, Mercato Interno Industria e Difesa. Con tutto ciò, nella commissione parlamentare ad hoc ebbe contro 82 dei 112 votanti. Fedeltà e logiche nazionali si infransero contro la psicologia istituzionale che anima il Parlamento Europeo dalla prima elezione a suffragio universale nel 1979: autonomia da governi e commissione, autorevolezza verso gli elettori. Comprensibile che contro la logica sovranazionale del Parlamento Europeo possa schierarsi la logica dell’orgoglio nazionalista.
Nel caso di scuola di Goulard, la candidata fu rigettata in quanto coregista delle politiche di austerità imposte ai paesi membri tra il 2008 e il 2017 prostrandone le capacità di crescita. Rimase inoltre intrappolata nell’uso improprio di fondi del Parlamento Europeo, tanto da dover restituire almeno 45.000 euro. Nel giudizio pesarono conflitti d’interesse: Goulard figurava nel think tank di Berggruen Institute creatura dell’investitore finanziario statunitense Nicolas Berggruen, era stata pagata o rimborsata per collaborazioni con organizzazioni e imprese lobbyste presso l’Ue. Niente che riguardasse la Francia, salvo che Macron volle incaponirsi nel segno della grandeur sua e del paese.
Si è richiamato il precedente, non perché paradigmatico rispetto al dibattito in corso sulla proposta italiana di affidare al ministro Raffaele Fitto la vice presidenza esecutiva della Commissione, che resta questione minore rispetto ai grandi problemi in campo, ma perché si ritiene che è dal gioco politico interno al Parlamento Europeo che l’Ue troverà o non, il modo di evitare che le istituzioni unionali divengano preda dei crescenti nazionalismi, sovranismi, populismi.
Tra i grandi problemi europei, vi è l’inverno demografico. Nel 2050 sarà europeo solo il 7% dei terrestri contro il 25% d’inizio novecento. Si aggiunga che il 21,3% dei 489 milioni di persone che vivono nella Ue ha età pari o superiore a 65 anni, con un’età media che si colloca a 44,5 anni.
Accanto al declino demografico, quello economico, intervenuto nel primo decennio del nuovo secolo. Nel 1960, i 27 e Regno Unito superavano 1/3 del pil mondiale, posizione che vent’anni dopo, nel 1980, era ancora del 30%; senza drastici interventi, alla fine del XXI secolo il pil a 28 si sarà ridotto a 1/10 di quello mondiale, una perdita di 2/3 in un secolo e mezzo scarso. La crisi statunitense dei subprime nel 2007 mise a terra un’Ue (da allora sino alla pandemia del 2020 gli Usa crebbero del 20% e l’Ue solo del 10%), non più tornata ai livelli di crescita precedenti: quell’anno l’Ue a 28 rappresentava 1/4 del pil mondiale, superando gli Stati Uniti (23%) e surclassando la Cina (7%), ma tra il 2015 e il 2019 si andava a collocare intorno al 18%, con gli Usa che nel 2019 superavano il 23% del pil mondiale e la Cina che si posizionava appena un punto sotto l’Ue. Sotto quei numeri ci sono centri di ricerca e grandi produttori di tecnologie avanzate dell’Ue che hanno ceduto posizioni su posizioni in quanto a dinamismo e capacità finanziaria, cervelli aziende e prodotti andati a cercare collocazione in mercati più competitivi, o passati di mano (l’estone Skype acquistata da Microsoft nel 2011, la britannica DeepMind da Google nel 2014), un’Ue che da produttrice e venditrice si è trasformata in compratrice (nel 1990, in Europa si produceva il 44% dei semiconduttori mondiali, oggi il 9%). Le sette più grandi imprese mondiali di tecnologia per capitalizzazione di mercato sono, nel 2024, statunitensi: tra le prime venti compaiono solo due Ue, l’olandese Asml e la tedesca Sap. Nell’ultima puntata dell’incubo europeo, la partita sull’intelligenza artificiale: in campo giocano le imprese americane e cinesi, mentre quelle Ue stanno sugli spalti a fare da spettatori. Siamo al paradosso di una Cina che, settimane fa, ha individuato come target per la rappresaglia contro i dazi Ue sulle sue auto elettriche, i derivati del latte e dei suini, non trovando di meglio!
Né si tratta di crisi congiunturale. I dati Ocse sulla discesa di lungo periodo di produttività e retribuzioni nell’Unione Europea rispetto alle aree di competizione in Asia e nord America, evidenziano che si tratta di crisi strutturale con preoccupanti risvolti sociali. Nazionalismo, populismo, sovranismo stanno impedendo all’Unione di progredire nel cammino impostato dal quartetto Francia-Germania-Italia e Commissione, nelle persone di Mitterrand-Kohl-Craxi e Delors quando fu realizzata l’Unione Economica e Monetaria, con il rischio di tradire il mandato dei padri fondatori, in particolare nella materia sociale. Se non si consentono all’Ue politiche unionali in comparti decisivi come l’industria, il fisco, la difesa, il mercato dei capitali, nessun ruolo di primo piano potrà essere immaginato per gli europei nella competizione globale. Il declino, preannunciato a livello demografico e industriale, sarà inevitabile.
Proprio da queste premesse partono i rapporti Letta e Draghi, commissionati dalla Ue, nella scorsa legislatura, ai due ex presidenti del Consiglio italiani. Letta ha presentato al Consiglio Europeo del 17 e 18 aprile 2024 il documento Much More than a Market, Mario Draghi ha consegnato in questi giorni alla Commissione il documento The future of European competitiveness.
Letta si concentra sugli strumenti utili a soddisfare gli obiettivi prioritari della presente stagione unionale: neutralità climatica, difesa comune, allargamento. Il suo rapporto chiede che il bilancio unionale vada ben oltre l’attuale 1% del pil, che si riscrivano le regole della concorrenza così che si formino grandi blocchi industriali in grado di competere con quelli di potenze con politiche antitrust più permissive. Sempre con l’obiettivo di fare massa critica, ipotizza che siano estesi i finanziamenti ai progetti ultrafrontalieri, castigando i residui aiuti di stato alle aziende nazionali decotte e accrescendo i controlli della Commissione sul rispetto dei trattati. La preoccupazione, nel rapporto, è che i paesi e le imprese dei paesi membri, occupati nel proteggere i propri privilegi, non percepiscano il rischio di essere risucchiati dal mercato, perché troppo piccoli per competere.
Più vasto e innovativo il documento Draghi, che non esita a sottolineare aspetti anche sociali della crisi unionale, con riferimento specifico alle regressioni demografica e salariale, che lega in modo strutturale al tema centrale della sua relazione: la capacità dell’Unione a competere con Usa e Cina. Per l’ex presidente della Bce, senza decisioni politiche radicali che spingano i 27 ad avanzare nel percorso unionale, non sarà possibile fare dell’Ue un soggetto in grado di competere con Cina e Stati Uniti, condannando i 27 a proseguire nella retrocessione politica economica e sociale. Draghi disse a La Hulpe, a metà aprile, nell’incontro organizzato dal Consiglio Europeo sul “futuro del pilastro europeo dei diritti sociali”: “… ciò che propongo nel rapporto che la presidente della Commissione mi ha chiesto di preparare è un cambiamento radicale. Che è ciò che è necessario.” Draghi sostenne che al nuovo che avanza non si poteva continuare a rispondere con strumenti superati: “La nostra organizzazione, il nostro processo decisionale e il finanziamento sono pensati per il mondo di ieri, pre-Covid, pre-Ucraina, pre-conflagrazione in Medio Oriente, pre-ritorno della rivalità tra grandi potenze. Ci serve un’Unione Europea che sia all’altezza del mondo di oggi e di domani.”
Nel rapporto sulla competitività indica gli obiettivi da raggiungere con il “cambiamento radicale”: sistema energetico decarbonizzato, difesa integrata, produzione nei comparti innovativi, ambizione alla leadership tecnologica.
Da ex banchiere, Draghi pone la questione del chi paga e afferma che la prima mossa da compiere non può che riguardare l’Unione dei mercati dei capitali, in particolare di quelli privati: per Draghi senza quell’Unione nell’Ue si continuerà ad investire meno di Usa e Cina nel digitale e nelle tecnologie avanzate, difesa inclusa, mentre, per la rincorsa tecnologica servono tra 750 e 800 miliardi l’anno di investimenti aggiuntivi. In quanto alle industrie tradizionali, benché l’Ue in molte eccella rispetto ai concorrenti, la mancanza di coordinamento e solidarietà mette le industrie dei 27 di fronte a «una competitività iniqua causa di asimmetrie in regole, sussidi e politiche commerciali.»
Draghi non elude le questioni poste dall’azione russa nell’Europa centro-orientale e tra queste mette la produzione di armi per la difesa da paventate aggressioni: chiede appalti congiunti, coordinamento della spesa, interoperabilità dei sistemi e riduzione della dipendenza dall’estero. Stessi principi per l’approvvigionamento energetico e dei minerali critici, dove serve una piattaforma Ue che garantisca sicurezza dell’approvvigionamento diversificato, messa in comune delle disponibilità, finanziamento e stoccaggio.
Tutto il documento Draghi batte il tasto di una competitività da indirizzare verso l’esterno dei 27, mentre all’interno occorre unirsi per meglio competere. È un’equazione tutta politica, perché solo la volontà politica può consentirla.