Roma, 18 giu. (askanews) – Per Giorgia Meloni è “la madre di tutte le riforme”, l’elezione diretta del Presidente del Consiglio, e ha avuto il suo primo sì al Senato dopo sei mesi di discussioni. È lunga la storia delle riforme costituzionali fallite in Italia: ci hanno sbattuto la faccia per fare solo qualche nome Massimo D’Alema, Silvio Berlusconi, Matteo Renzi… Adesso ci prova Meloni, con il semplice espediente di votare a colpi di maggioranza, cioè senza intesa con l’opposizione: al Senato la prima approvazione del lunghissimo iter ha avuto 109 sì, 77 no, 1 astenuto, e a ruota ha portato in piazza quasi tutti i partiti d’opposizione, egemone il Partito Democratico della segretaria Elly Schlein
Il ddl sul cosiddetto “premierato” era stato approvato dal Consiglio dei ministri il 3 novembre 2023. Il testo ha subito delle modifiche nel primo passaggio parlamentare e, con ogni probabilità, altre ne verranno fatte anche alla Camera. A non essere suscettibile di cambiamenti è il principio base, ossia l’elezione diretta del capo del Governo.
COSA DICE LA LEGGE
Modificando l’articolo 92 della Costituzione, stabilisce che “il presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto” e che le “elezioni delle Camere e del presidente del Consiglio hanno luogo contestualmente”. Il premier eletto ha un limite di due legislature. Chi vince le elezioni ha un premio che garantisce la maggioranza in ambo le Camere.
L’idea secondo la maggioranza è che di fronte alla storica, cronica instabilità dei governi italiani, l’elezione diretta del premier sia l’unico modo di evitare le schermaglie parlamentari e garantire un esecutivo che duri – a meno di colpi di mano e cambi di casacche – l’intera legislatura. E per questo hanno celebrato in piazza dopo il voto al Senato.
Fra le altre modifiche costituzionali, l’eliminazione del “semestre bianco” in cui il presidente della Repubblica non può sciogliere le Camere, e dei senatori a vita.
E IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA?
Il vero nodo della riforma, quello che lascia perplessi anche molti di coloro che non disdegnerebbero l’idea di un’elezione diretta del premier, è l’equilibrio dei poteri fra il capo del Governo e il capo dello Stato. La riforma infatti non tocca in teoria i poteri del presidente della Repubblica, che la Costituzione designa come garante dell’equilibrio istituzionale. È attualmente il capo dello Stato – eletto dal Parlamento ogni sette anni – a nominare il presidente del Consiglio, e i ministri su sua proposta. Così dovrebbe essere anche in futuro: ma ovviamente, di fronte a un premier eletto dal popolo, la scelta è obbligata e il peso del capo dello Stato assai minore (non entriamo nei dettagli di quel che succederebbe con la riforma se al governo venisse a mancare la fiducia; in sostanza il testo cerca di spingere il capo dello Stato anche in questo caso a sciogliere le Camere per tornare alle urne, mentre attualmente ha facoltà di cercare un altro premier e un’altra maggioranza).
Insomma, l’architettura istituzionale viene stravolta ma senza trarne le conseguenze sino in fondo, e col rischio di creare situazioni ingestibili.
LA FURIA DELL’OPPOSIZIONE: “REGIME AUTORITARIO”
I partiti di opposizione – da Alleanza Verdi e Sinistra ai Cinque Stelle a Più Europa al Partito Democratico, ma senza i partiti di Renzi e Calenda, che però non hanno votato la legge – protestano da mesi e nel pomeriggio dopo l’approvazione hanno manifestano lanciando una serie di accuse. Primo, che il governo Meloni sta svelando le sue radici autoritarie; per la segretaria del partito Democratico Elly Schlein, “la destra ha sempre sognato di smantellare la repubblica parlamentare per il modello del capo solo o della capa sola al comando”. Per il leader del Movimento Cinque Stelle Giuseppe Conte, la riforma vede “i parlamentari ridotti a maggiordomi e il presidente della Repubblica a cerimoniere e passacarte”.
L’ACCUSA: UN “BARATTO” CON L’AUTONOMIA DIFFERENZIATA DELLA LEGA
Secondo, che Meloni abbia barattato i voti della Lega al premierato con l’ok ad un’altra riforma cara al cuore leghista, che cambierebbe profondamente l’Italia, la cosiddetta “autonomia differenziata” contro cui la sinistra lotta strenuamente. Significherebbe de facto il federalismo che i leghisti vogliono da sempre: le regioni avrebbero autonomia legislativa non solo sulla salute (è già così) ma sui rapporti internazionali e con l’Unione europea, sul commercio con l’estero, l’istruzione (tante scuole quante regioni), la ricerca, la protezione civile, le imposte… e molto altro. I critici sostengono che in un paese economicamente spaccato fra nord e sud, oltre a sgretolare l’unità d’Italia, una riforma di questo tipo significa abbandonare il Meridione al suo destino, e rende dappertutto più difficile l’accesso egalitario alla scuola pubblica, unico strumento profondo di livellamento sociale – e integrazione per i bambini migranti.
In piazza, però, in serata soprattutto i partiti più piccoli del centrosinista hanno battuto sull’unità: si può vincere solo se si superano le divisioni e le fratture che storicamente lacerano le molte anime del centrosinistra italiano. Chissà che la lotta al premierato non faccia da collante efficace…
COSA SUCCEDE ADESSO?
Il testo torna alla Camera dei deputati e se verrà modificato ulteriormente, dovrà poi tornare al Senato: serviranno altri tre via libera. Per cambiare la Costituzione infatti, a norma dell’articolo 138 serve una procedura speciale. Che prevede: due sì di entrambi i rami del Parlamento a distanza di almeno tre mesi e il voto favorevole dei due terzi dei membri di Camera e Senato. Siccome la maggioranza non ha i due terzi, si può sottoporre il progetto di riforma al voto degli elettori, tramite referendum costituzionale. Ed è su questo che punta l’opposizione.
IL NODO DELLA LEGGE ELETTORALE
Altro problema della riforma è che non funziona senza una legge elettorale ridisegnata – che però al momento non è stata messa sul tavolo.
GLI ELETTORI ALL’ESTERO
Ultimo dato di grande importanza per gli italiani all’estero: l’attuale legge elettorale – da riscrivere – prevede un numero prestabilito di eletti: 8 deputati e 4 senatori, dopo il taglio dei parlamentari della scorsa legislatura. Ma si parla di milioni di potenziali elettori, e il loro voto in termini assoluti con una legge ridisegnata per dare loro maggior peso potrebbe diventare anche decisivo.
Un presunto proverbio cinese – un aforisma di cui in realtà le origini non sono chiare – dice “che tu possa vivere in tempi interessanti”. È una maledizione; e interessantissimi i tempi sono, in Italia e nel mondo.