Venticinque aprile: cinquantenario in Portogallo della Rivoluzione dei garofani. Che sotto la spinta dell’ala progressista dell’esercito nauseata dall’assenza di libertà, allarmata dalla povertà in cui agonizzava l’economia, e stremata dalle guerre coloniali, mise fine in modo incruento alla ultraquarantennale dittatura di Antonio Salazar e Marcelo Caetano. Una ricorrenza particolarmente sentita in un paese dove la democrazia, nella fisiologica alternanza di forze conservatrici e progressiste, non ha subito scossoni neanche nei momenti più travagliati della storia nazionale.
Una stabilità confermata anche nelle recenti elezioni. In cui una coalizione di centrodestra moderata ha prevalso di misura sui socialisti (da otto anni al potere) logorati da uno scandalo finanziario. Luis Montenegro, il nuovo primo ministro, guida un fragile governo di minoranza che per strappare i numeri in Parlamento è costretto a trattare compromessi su ogni legge con i partiti dell’arco democratico. Resistendo alla tentazione di imbarcare al potere l’estrema destra di Chega che in tre anni ha decuplicato i consensi soprattutto fra i giovani e con cui otterrebbe la maggioranza assoluta.
“Ma un no è un no”, aveva proclamato in campagna elettorale Montenegro. Che anche dopo il voto, pur correndo quotidianamente rischi di caduta, ha continuato a considerare irricevibile l’aiuto di una formazione politica reazionaria, al punto che André Ventura (il suo capo) aveva presentato un disegno di legge per la rimozione delle ovaie per le donne decise di ricorrere all’aborto.
Anche in Portogallo soffia insomma forte il vento di destra. Alimentato in parte da un deficit di memoria storica e in parte dagli affanni di un’economia che sotto i governi socialisti ha sistemato sì i conti dello Stato ma per i cittadini ha migliorato solo in minima parte gli standard di vita. Creando perlopiù lavori legati al boom del turismo e malpagati e provocando una gentrification dovuta all’impossibilità di pagare gli affitti saliti alle stelle nelle aree centrali delle città. “E’ evidente”, scrive accorato un lettore a un giornale, “che noi della vecchia generazione non siamo riusciti a spiegare ai nostri figli cos’era il Portogallo di Salazar”. “Che ce ne facciamo dei vostri bei ricordi”, è la replica di un esponente della generazione Z, “se ci tocca sgobbare dieci ore al giorno per la miseria di 800 euro al mese, oppure emigrare?”.
Ma in un recente sondaggio la democrazia è ancora considerata un pilastro irrinunciabile per la maggioranza dei portoghesi anche se un 40 per cento accetterebbe in circostanze particolari la presenza al vertice di un uomo forte. Regge insomma il cordone sanitario nei confronti di un’ultradestra che ha radici saldamente piantate nella nostalgia della dittatura.
Nella celebrazione della festa il Portogallo, in un turbinio di parate, mostre, concerti, manifestazioni di piazza, rivive con straordinaria partecipazione l’ebrezza della libertà conquistata nel 1974. Giornali e tv abbondano di ricostruzioni sugli avvenimenti che rovesciarono il regime. A cominciare dalle colonne di mezzi militari partite durante la notte da una caserma di Santarem alla complicità di una radio commerciale che diede il via libera al colpo di Stato trasmettendo come segnale convenzionale una canzone libertaria (“Grandola, Villa Morena”) proibita dal regime e in questi giorni proposta come nuovo inno nazionale.
Dall’occupazione militare dei centri nevralgici del potere alla debole difesa delle forze governative (sfociate in sole quattro vittime) e alla capitolazione di Caetano che nel ’68 era subentrato a Salazar ridotto all’infermità. Dal tripudio per le strade del popolo liberato al semplice gesto di una giovane fioraia improvvisata, Celeste Caeiro (oggi novantenne, insignita della massima decorazione dal presidente della Repubblica), che distribuì ai soldati alcuni mazzi di garofani. Infilati subito dai rivoltosi dentro le canne dei fucili. L’immagine-simbolo di una rivoluzione che, insieme a quella cubana, diventò presto un mito per la sinistra mondiale.
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