Il 20 marzo 2003, esattamente 20 anni fa, gli Stati Uniti spalleggiati da Gran Bretagna, Australia e Polonia e supportati anche dall’Italia, invasero l’Iraq scatenando la seconda guerra del Golfo (la prima risale al 1990-1991). A differenza del permanente conflitto in Ucraina, che vede vede pure direttamente o indirettamente impegnate grandi potenze, fu un’operazione bellica di breve durata. Troppo netta la differenza fra le forze militari in campo. Già il 9 aprile le truppe americane conquistarono Bagdad costringendo il dittatore Saddam Hussein alla fuga (fu catturato qualche mese dopo e giustiziato nel 2006). Un epilogo rapido, largamente previsto dai commentatori e dai cronisti, incluso il sottoscritto che seguì l’avanzata dell’esercito americano dal Kuwait verso la capitale irachena.
Le analogie fra i due conflitti riguardano la dimensione novecentesca di entrambi gli scontri (offensive di missili e di carri armati). Le previsioni di durata alla vigilia delle invasioni (nel caso dell’Ucraina clamorosamente smentite). E la pretestuosità dell’intervento: gli Stati Uniti per distruggere le armi di distruzione di massa che il dittatore non aveva mai avuto; la Russia per denazificare l’Ucraina dove dalla caduta dell’Urss vigeva un regime democratico sia pur zoppicante.
Nei fatti George Bush junior, ancora furibondo per l’attentato alle Due Torri (2001), dopo aver spazzato via i talebani fiancheggiatori di Osama Bin Laden in Afghanistan voleva sbarazzarsi definitivamente di un tiranno che nel ’90 aveva già incendiato il Medio Oriente con l’annessione del Kuwait. Premendo sul segretario Stato Colin Powell che si giocò la reputazione sostenendo la tesi delle armi letali nascoste negli arsenali di Bagdad.
E Putin intendeva dar sfogo alla vocazione imperiale della Russia con il recupero non solo dei territori russofoni ma dell’intera Ucraina da tempo pencolante verso l’Europa e la Nato. Per ridarsi quell’aura di superpotenza perduta con i tentennamenti di Gorbaciov che sfociarono nella liquidazione dell’impero sovietico.

L’America riuscì a liberarsi presto di Saddam Hussein, che non aveva le spalle coperte da nessun alleato e per i suoi metodi brutali era inviso anche negli altri Stati arabi. Avversato inoltre dall’Iran, certo non partigiano di Washington ma ancora avvelenato con Bagdad per la sanguinosissima guerra che lungo otto anni (1980-1988) aveva opposto i due colossi militari dell’area.
Ma Bush che ambiva a introdurre la democrazia in Iraq, conquistando “il cuore e le menti” di quel popolo, non calcolò le quasi scontate conseguenze che continuano a lacerare vasti segmenti del Medio Oriente. Troppo sideralmente distanti – per cultura, religione, mentalità, costumi – gli arabi dagli occidentali. Senza contare che ogni invasione scatena un riflesso condizionato di orgoglio patriottico che a cavallo fra l’Iraq e la Siria è degenerato nella nascita e nell’esplosione dell’Isis, fino a qualche anno fa minacciosissima e oggi fortunatamente in sonno.
Anche Putin, ringalluzzito dalle facili vittorie militari in Siria e in Africa e fuorviato probabilmente dai suoi servizi segreti sulle effettive capacità di resistenza dell’esercito ucraino, contava in pochi giorni di eliminare il presidente ucraino Zelensky e di insediare a Kiev un governo fantoccio. Nella percezione di un facile successo deve avere certamente influito pure la convinzione che un Occidente a suo avviso moralmente decrepito non sarebbe mai accorso in sostegno all’Ucraina.
Tesi avallate da un presunto indebolimento della Nato che lo stesso presidente francese Macron aveva definito in “coma profondo” appena un anno prima e a una tendenza al disimpegno degli Stati Uniti che si erano ritirati precipitosamente dall’Afghanistan lasciando campo libero al ritorno dei talebani. Gli sviluppi sono stati invece sorprendenti. Gli Stati Uniti, la Nato e in senso lato l’Occidente hanno prontamente reagito all’aggressione in difesa della democrazia della libertà. Fornendo all’Ucraina i mezzi e gli strumenti per predisporre dighe, rintuzzare l’offensiva, sferrare perfino il contrattacco. E Putin, che può vantare solo modeste conquiste territoriali al mostruoso prezzo di 180 mila morti sacrificati sull’altare di assalti perlopiù sconclusionati, oggi è impantanato in una gigantesca palude di difficoltà da cui non riesce ad uscire ma in cui è costretto a continuare agitarsi per non perdere il potere.
Certo, ha ragione ad affermare che nonostante tutte le sanzioni la Russia non è isolata. Ha la Cina e in parte l’India (insieme, un terzo dell’umanità) ancora dalla sua parte, oltre a altri Stati che perlomeno non lo condannano in Sud America e Africa. Ma l’obiettivo che si è proposto si allontana sempre di più. Bene che gli vada, se non decide sull’orlo della disperazione di scatenare l’apocalisse nucleare (muoia Sansone con tutti i filistei), potrà conservare in un’ipotetica trattativa di pace la Crimea e il Donbass (tutto o in parte). Più o meno l’area di influenza che aveva già prima della guerra, mentre il resto dell’Ucraina sembra avviato a integrarsi nell’Europa e forse nella Nato.
Per tornare alle analogie fra l’Iraq e l’Ucraina non si può non evidenziare la galleria degli orrori che riguardano ogni guerra. In testa le carneficine: 300 mila mori finora in Ucraina, 200 mila allora in Iraq. Più gli eserciti degli sfollati. Le città sventrate. Le economie distrutte. I vari crimini di guerra. Sia pur breve anche la seconda guerra del Golfo fu molto violenta. Con la pioggia di razzi che ogni giorno cadeva non solo sugli obiettivi militari ma anche sulle strutture civili. Noi cronisti, alloggiati a Bagdad all’hotel Palestine, al primo ingresso in stanza spostavamo gli armadi davanti alle finestre dopo che due colleghi erano stati uccisi da un lancio di razzi. E il piccolo e più defilato albergo in cui per motivi di precauzione avevo trascorso la mia ultima notte in Iraq dopo un paio di settimane fu raso al suolo da un’autobomba.
La comparazione regge al momento anche sul piano degli effetti, pur tenendo in considerazione che non si sa come finirà l’invasione russa. Un fatto però appare certo. L’Occidente non consentirà in nessun caso che Mosca sottometta l’Ucraina. E quindi anche l’obiettivo principale dell’invasione di Putin è destinato a fallire come avvenne per quello del pur vittorioso Bush junior (oggi l’Iraq è ancora parzialmente influenzato dall’Iran nemico degliUsa). Il destino di Zelensky è ovviamente imperscrutabile. Ma appare fin d’ora impossibile che faccia la fine di Saddam Hussein. E’ meno inverosimile che, se le ostilità proseguiranno in una situazione di stallo, cada Putin con un colpo di Stato.
Poco prima della fine del secolo scorso il dibattito geopolitico era concentrato sulle teorie di due grandi politologi americani: Francis Fukuyama con “La fine della storia”, il saggio che dopo la caduta del Muro di Berlino profetizzava il definitivo trionfo delle democrazie liberali e della civiltà occidentale; e Samuel Huntington che con “Lo scontro di civiltà” preconizzava una serie di conflitti scaturenti dalle divisioni culturali e non più ideologiche come quelli del Novecento. Alla prova dei fatti aveva avuto la vista più lunga Huntington. La Russia e la Cina manifestano ostilità verso l’Occidente non per la diversità delle ispirazioni politiche ma per la decadenza a loro giudizio dei nostri stili di vita considerati sconci e debosciati.