Lo ha annunciato davanti a tutti, affrontando la sfida a viso aperto.
“Ho il cancro alla gola e al seno”, ha detto Martina Navratilova, icona del tennis anni ’80 che dalle sue parole lascia trasparire un po’ di paura per una malattia “grave”, ma che “ancora si può sconfiggere”.
Per farlo tornerà a fine mese a New York, città in cui inizierà il trattamento e che in carriera, proprio quarant’anni fa, le diede una delle gioie più grandi.
Era l’estate del 1983 e sul cemento di Flushing Meadows Martina, che di Slam in singolare ne aveva già vinti sette, per la prima volta alzò il trofeo. Aveva un sorriso più grande del solito, perché con il titolo americano ottenne il “Career Grand Slam”, la conquista di tutti e quattro i Major.
Era la numero uno del mondo in un ranking dominato dalle atlete Usa, che solo qualche settimana prima, nel luglio del 1983, occupavano tutte le prime cinque posizioni della classifica. A New York, in quel settembre estremamente caldo (il giorno della finale femminile si sfiorarono i 37 gradi), Martina arrivò ispiratissima.
Lei, che del serve and volley fu l’interprete più illustre, in finale si trovò di fronte all’unica che sapeva tenerle testa: Chris Evert, donna con cui non condivideva nulla se non la nazionalità. Erano le regine incontrastate del tennis femminile e i loro match a fine torneo stavano diventando un’abitudine.
Sul centrale Martina si presentò con una maglietta bianca e blu, Chris vestita a righe rosse. Non ci fu storia. La Navratilova giocava troppo bene, abbinando alla solita qualità tecnica sotto rete una resistenza fisica impressionante. A poco servirono quel giorno alla Evert i famosi pallonetti millimetrici. Martina correva avanti e indietro senza problemi, non lasciando al colpo bimane dell’avversaria lo spazio per poter iniziare a manovrare da fondo.
“È la donna che ha rivoluzionato il tennis per l’atletismo e l’aggressività in campo”, disse di lei la Evert, che forse proprio quel giorno si rese conto di avere di fronte un mostro sacro della racchetta.
A New York vincerà poi altre tre volte in singolare, trofei che abbinerà ai 9 sollevati in doppio e ad altri tre in doppio misto. Sedici i titoli totali conquistati: un bottino che la rende ancora oggi la più vincente (era Open) nel torneo del Queens.
Eppure lei, così legata agli Stati Uniti, nacque molto lontana dal confine. Il cognome lo suggerisce: le origini sono dell’est. Precisamente a Praga, il 18 ottobre 1956, in quella che ancora si chiamava Cecoslovacchia e dove il comunismo la faceva da padrone. Nacque Martina Šubertová, ma cambiò cognome a sei anni, dopo che la madre sposò Miroslav Navrátil, il suo primo insegnante di tennis.
Nel regime centralizzato sovietico le mancava l’aria e a soli 18 anni si presentò agli uffici dell’Immigration and Naturalization Service di New York dicendo di voler fuggire dal regime del suo paese e spostarsi negli Stati Uniti. Le bastò un mese per ottenere la Green Card e subito si trasferì negli States, dove divenne cittadina nel 1981 dopo alcuni anni da apolide.

Il tennis la rese una leggenda. Non impiegò molto ad entrare a piedi pari nella storia dello sport e nonostante siano passati tanti anni detiene record che difficilmente saranno superati: maggior numero di titoli vinti in assoluto (344), in singolare (167) e in doppio (177).
Irruente, ma con una mano deliziosa, divenne negli Stati Uniti la mancina da accostare a John McEnroe, con cui condivise il tipo di gioco. In campo non aveva tempo da perdere, lei che per tutta l’adolescenza le cose se le era dovute guadagnare con fatica.
Correva a rete dopo il servizio, ma anche in risposta, approcciando il net con colpi in back che costringevano le rivali a chinarsi sulle ginocchia.
“Sarà doloroso – ha detto Martina commentando il percorso che dovrà fare per provare a guarire – ma combatterò con tutto quello che ho”. Così come ha sempre fatto dentro quelle quattro linee bianche che l’hanno resa immortale.