Non tutti i mondiali incoronano un re. Frugando nella memoria, si stagliano con netta evidenza le figure di Pelé (collezionista di tre Coppe, ancora un record, fra il ’58 e il ’70), Paolo Rossi (’82), Maradona (’86), Zidane (’98), Ronaldo il fenomeno (2002). In Qatar il sovrano assoluto è stato il 35enne Leo Messi che con il Barcellona aveva vinto tutto ma che solo nel finale di carriera è riuscito a centrare il traguardo più prestigioso: la Coppa che mancava all’Argentina da 36 anni, che gli era sempre sfuggita e che gli impediva di accedere all’Olimpo delle glorie nazionali anche se un gradino sotto l’inarrivabile mito (Maradona).
Nella titanica sfida dei 10 (il numero di maglia dei fuoriclasse) il mondiale di Doha ha eletto anche un vicerè: il 24enne Mbappé, che da giovanissimo aveva già alzato la Coppa quattro anni fa in Russia. Destinato per la forza della gioventù a ereditare fin dalla prossima edizione il trono da Messi, suo grande rivale nella finale e suo compagno di squadra (anche se pare non si amino troppo) nel Paris Saint Germain di proprietà proprio dell’Emirato che ha organizzato la 22ª edizione della Coppa. Non si scorgono, al momento, altri talenti emergenti che possano insidiare la straripante genialità del francese che già oggi è il calciatore più pagato del pianeta.
Messi ha vinto di un soffio perché si è caricato sule spalle l’Argentina, intesa non solo come squadra ma come intera nazione. Uscendo dal suo bozzolo di fuoriclasse incontenibile ma dal carisma intermittente. Rivelando una rabbia che lo ha trasformato da artista in guerriero, da solista sublime in leader. Conscio che il trionfo non sarebbe stato solo sportivo, ma avrebbe avuto riflessi sociali e perfino politici. Alleviando almeno per qualche giorno nella sbornia di orgoglio nazionalistico le angosce del paese schiacciato dall’iperinflazione (quasi il 100 per cento) e con quasi metà della popolazione sotto la soglia della povertà.
A Mbappé che in finale aveva sonnecchiato fino all’80°, contagiando con la sua svagatezza anche la Francia che sembrava quasi non voler entrare in partita, sono bastati due lampi in un paio di minuti per confermarsi incontenibile. E spingere poi con il secondo penalty i transalpini verso la grande illusione svanita ai rigori.

Un campionario di prodezze che gli ha lasciato l’amaro in bocca ed è servito solo a emulare l’inglese Hurst (primo autore di una tripletta nel ’66 in una finale) e a staccare di un gol Messi nella classifica dei cannonieri. La verità è che la Francia aveva meno fame dell’Argentina. A parte l’ossessione costante della grandeur tenacemente perseguita da Macron che nell’atto finale non ha esitato a liberarsi dell’aplomb presidenziale per atteggiarsi a tifoso curvarolo. Un gap di passionalità che poteva riscontrarsi anche nelle presenze allo stadio Iconico. Quarantamila argentini giunti a Doha con i charter contro poche migliaia di francesi.
Il mondiale di Doha è stato preceduto e accompagnato da mille polemiche. Ma – è onesto riconoscerlo – si è chiuso con un bilancio positivo sia dal punto di vista organizzativo che tecnico. Avveniristici e ospitali gli stadi che, insieme alle altre infrastrutture, sono costati la cifra record di 200 miliardi di euro. Rispettata la previsione dell’affluenza: circa due milioni di spettatori. Ordinata e non opprimente la gestione dell’ordine pubblico. Lo stesso contestato divieto di smercio di bevande alcoliche, in ossequio alla legge islamica, ha contribuito a placare le tensioni: non si ha notizia di risse.
Dal punto di vista strettamente calcistico l’interesse è stato dilatato da una girandola di sorprese. Con le eliminazioni premature prima di Germania, Belgio e Uruguay. E poi, negli scontri diretti, di Spagna, Inghilterra, Portogallo, Olanda e soprattutto del superfavorito Brasile. Sul piano tecnico c’è da registrare un’evoluzione: sta tramontando il tiki-taka di derivazione spagnola, il fraseggio orizzontale in attesa del momento per l’imbucata sotto rete. Le Nazionali che hanno fatto più strada hanno espresso un football più propositivo e più verticale, incluso l’outsider Marocco che ha trascinato per la prima volta l’Africa in semifinale. Dal punto di vista umano va segnalato, infine, il viale del tramonto di un’altra divinità sportiva: il quasi 38enne Cristiano Ronaldo (cinque volte pallone d’oro, due meno di Messi), per eccesso di egocentrismo diventato un corpo estraneo anche agli occhi dei tifosi portoghesi che lo idolatravano.

Si è accennato alle polemiche. Riguardavano in primo luogo l’opaca assegnazione del Mondiale al Qatar, favorito da intrecci politico-finanziari in cui risultavano evidenti le impronte dell’Eliseo. C’era poi l’esecrazione planetaria per il trattamento quasi schiavistico riservato alla manodopera asiatica che ha contribuito alla costruzione degli stadi e al rifacimento urbanistico di Doha. Il tutto, negli ultimi giorni, rinfocolato dal Qatargate, dal tentativo (reale o presunto) messo in atto dalla dinastia degli Al Thani al potere per migliorare la reputazione dell’Emirato con mazzette elargite a membri (al momento prevalentemente italiani) dell’Europarlamento o collegati a quell’istituzione. Lo scandalo lascia intravvedere sviluppi ancora più clamorosi. Il governo del Qatar, che aspirerebbe anche prima o poi a organizzare un’Olimpiade, al momento smentisce un coinvolgimento diretto. Al massimo punta l’induce su negligenze del ministro del Lavoro che non esiterebbe a scaricare. Ma, forte delle enormi riserve di gas, fa intanto anche la voce grossa minacciando in una stagione di così grave crisi energetica di interrompere le forniture.
Il minuscolo Qatar non rinuncia insomma al suo piano di ergersi come punto di riferimento nelle relazioni fra il Golfo Persico e l’Europa. Ponendosi in diretta concorrenza con gli Emirati Arabi e l‘Arabia Saudita. Un disegno strategico che passa per lo sviluppo del soft power nel campo appunto dei grandi eventi sportivi, dell’immobiliare (decine di palazzi di pregio acquisiti nel vecchio continente), del lusso (l’acquisto di prestigiose case di moda) e della comunicazione (le reti televisive Al Jazeera e BeIN). Senza però rinunciare alla rigidità dei costumi sunniti che condannano l’omosessualità e neanche prendono in considerazione il tema dell’emancipazione femminile. E, in campo politico, al sostegno del movimento integralista dei Fratelli Musulmani in Libia ed Egitto e al dialogo con gli sciiti di Teheran e con i talebani di Kabul. Pur continuando a ospitare una base americana presso Doha. Troppi piedi in una sola scarpa. Una bulimia però favorita dalle enormi ricchezze che per ragioni di realpolitik collocano l’Emirato al centro di una ragnatela di interessi contrapposti.
La Fifa ha assecondato in pieno la strategia degli Al Thani. Il presidente Infantino ha enfatizzato la riuscita dell’evento dichiarando in un eccesso di entusiasmo che quello di Doha “e’ stato il miglior mondiale di tutti i tempi”. Indubbiamente il calcio sbarcato in Arabia ha esteso i suoi orizzonti tradizionali e con i flussi turistici ha aperto nuove opportunità di scambio fra culture diverse. Infantino ha però scansato le sabbie mobili delle denunce sui diritti umani. Dichiarando che lo scopo della sua organizzazione, a cui aderiscono oltre 200 paesi, è solo quello di portare gioia allo sterminato popolo degli appassionati di football. Da qui il rifiuto di divulgare l’auspicio di pace rivolto dal leader ucraino Zelensky alla vigila della finale. Uno scarico di responsabilità pilatesco e pure contraddittorio. Che non spiega perché allora la Fifa ha sospeso la Russia dalla partecipazione ai mondiali in seguito alla guerra in Ucraina.
Fra quattro anni da una singola città il testimone passa a un territorio sterminato. Il mondiale si distribuirà in tutto il Nord America, fra Messico, Canada e prevalentemente Stati Uniti dove si svolgerà la finale e dove il football è in grande ascesa. Le ammesse alla fase conclusiva cresceranno da 32 a 48. E molto probabilmente ci sarà anche l’Italia, esclusa per ben due edizioni di fila. Passerà per la riscoperta dell’America il nostro risorgimento calcistico.
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