Che i russi interferiscano nelle elezioni straniere è una teoria conosciuta da tempo. Se ne parla spesso, ma di solito a finire nel mirino delle cronache sono i “troll”, gruppi enormi di account che su Internet (e soprattutto sui social) diffondono notizie e indiscrezioni create ad arte per spostare i favori dell’opinione pubblica.
Stavolta, però, a finire sotto la lente di ingrandimento del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti non è un’entità astratta o un’intera nazione, ma un singolo individuo: Aleksander Viktorovich Ionov.
Si dice che lavori con il Servizio di sicurezza federale russo (FSB) ed è stato accusato di aver orchestrato una “campagna di influenza maligna estera durata anni per seminare discordia, diffondere propaganda pro-russa e interferire nelle elezioni degli Stati Uniti”.
Otto anni. È questo il lasso di tempo in cui Viktorovich, secondo l’accusa, sarebbe riuscito a reclutare diversi gruppi politici americani esercitandone la direzione o il controllo dell’FSB. Come? Finanziando azioni di questi movimenti all’interno del territorio federale volte a favorire gli interessi russi, indirizzandoli a pubblicare propaganda pro-Cremlino e coordinando la copertura di queste attività con i media di Mosca.

Nello specifico, le accuse rivolte contro Ionov includono l’esercizio di “direzione e controllo” su un gruppo politico con sede in California “il cui obiettivo primario era promuovere la secessione della California dagli Stati Uniti”. Un lavoro di “lavaggio del cervello” che si sarebbe spinto addirittura nel tentativo di convincere un plotone di uomini a fare irruzione nell’ufficio del governatore durante una protesta del 2018, quando al Campidoglio sedeva ancora il democratico Jerry Brown.
Nelle comunicazioni successive, in cui si discuteva della copertura mediatica della protesta, Ionov si sarebbe vantato di aver portato lo “scompiglio” come un agente dell’FSB gli aveva chiesto. Una prova schiacciante del suo coinvolgimento con gli organi di spionaggio controllati da Putin.
Le indagini si spostano poi al marzo del 2020, quando Ionov avrebbe pagato i membri di un’altra iniziativa politica per viaggiare da Atlanta a San Francisco e “protestare presso la sede di una società di social media che aveva posto restrizioni di contenuto ai post che sostenevano l’invasione della Russia in Ucraina”.
Avrebbe infine controllato un terza organizzazione con sede in Florida, finanziando un “tour di protesta in quattro città” con l’obiettivo di “alimentare la discordia all’interno degli Stati Uniti”. Il gruppo, di cui non è noto il nome, avrebbe promosso una petizione per chiedere giustizia per il “crimine di genocidio contro il popolo africano negli Stati Uniti”.
Per il Dipartimento del Tesoro il quadro è piuttosto chiaro. Ionov collabora, o almeno ha collaborato, con il “Progetto Lakhta”, un’operazione di influenza russa condotta dal “cuoco di Putin” Yevgeny Prighozin, imprenditore del mondo della ristorazione che ha iniziato da un chiosco di hot dog per poi aprire una serie di ristoranti di lusso.

Secondo quanto ricostruito in un processo del 2018, il progetto Lakhta altro non è che una campagna organizzatissima di influenza e lobbyng che “si impegnava in operazioni di interferenza politica ed elettorale rivolte a popolazioni della Federazione Russa”, dell’Europa, degli Stati Uniti e dell’Ucraina. Lo scopo negli Usa era quello di “diffondere la sfiducia nei confronti dei candidati alle cariche politiche e del sistema politico in generale”.
Un sistema occulto che di frutti, nel tempo, pare averne portati tanti. Lo sa bene Maria Butina, la cittadina imprigionata per aver lavorato come agente russa non registrata ed essersi infiltrata in gruppi di destra tipo l’NRA, un’organizzazione che agisce in favore dei detentori di armi da fuoco degli Stati Uniti.
Lei, grazie a una raccolta fondi di Ionov, è riuscita a pagarsi le spese legali per circa 30.000 dollari. Gli Stati Uniti temono che di storie come la sua, magari mai salite alla ribalta, possano essercene molte altre.