Era negli Stati Uniti dal 2020, in attesa di una risposta alla sua domanda di asilo, e viveva a Columbus, in Ohio, da dove tesseva la tela per portare a termine la sua missione: uccidere il 43mo presidente degli Stati Uniti.
Era questo il piano di una cellula dell’Isis per assassinare George W. Bush, in un complotto organizzato a Dallas e sventato dall’Fbi grazie a due informatori e al monitoraggio online.
Dietro al progetto c’era l’iracheno Shihab Ahmed Shihab, che da 19 anni, dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003, covava rabbia e sete di vendetta.
Shihab ha trascorso mesi a elaborare strategie e prendere contatti con presunti complici di altri paesi del Medio Oriente, fino a quando, alla fine del 2021, si è detto pronto a colpire con l’aiuto di un commando fatto entrare dal Messico. Lo scorso novembre è volato in Texas per un sopralluogo, filmando la casa dell’ex inquilino della Casa Bianca.

Ma i due informatori dell’Fbi, che da tempo lo tenevano sotto controllo, sono riusciti a creare con lui un rapporto di stretta collaborazione. Shahib si fidava talmente tanto di loro da accettare di usare un cellulare che gli avevano fornito: uno smartphone che si è poi rivelato fatale per la sua operazione. A loro aveva raccontato di essere parte dell’unità di ‘Al-Raed’ e rivendicato di aver ucciso molti americani in Iraq fra il 2003 e il 2006 con auto imbottite di esplosivo. E con loro era entrato anche nei dettagli della sua missione, rivelando che un gruppo di sette persone sarebbe stato inviato negli Stati Uniti per uccidere Bush.
Una volta portata a termine l’operazione avrebbe lasciato gli Usa in trionfo.
“Il presidente Bush ha tutta la stima del mondo nel Secret Service e nell’intelligence”, ha dichiarato un portavoce dell’ex presidente. Da oggi, forse, ancora di più.