Mi ha sempre stupito la forza di Nasrin Sotoudeh, avvocata e convinta attivista dei diritti umani condannata a 38 anni di carcere e 148 frustate. Una pena scioccante e di una crudeltà incredibile, non degna di un paese dalla storia millenaria come l’Iran. Frustare una donna non è un segno di potenza per uno stato, ma di debolezza.
Nasrin Sotoudeh è rinchiusa da giugno nel terribile penitenziario di Evin, il buco nero dove finiscono tanti prigionieri politici che chiedono al regime iraniano riforme e di vivere in un paese democratico. Non è la prima volta che Nasrin finisce in carcere, successe anche nel 2010 dopo la violenta repressione per mano di Ahmadinejad seguita alle elezioni che determinarono il successo dei riformisti. Quell’onda verde di giovani che aveva inondato pacificamente le strade di Teheran fu annientata a colpi di manganello e arresti in massa di intellettuali. Nasrin fu accusata di propaganda e cospirazione ai danni della sicurezza dello stato e condannata a sei anni di reclusione oltre all’interdizione dallo svolgimento del suo lavoro per 20 anni.
Allora, la mobilitazione del Parlamento Europeo che le assegnò il Premio Sakarov nel 2012, servì a farla uscire di galera, dopo aver passato tre anni dietro le sbarre. Mi auguro che anche questa volta l’Europa faccia sentire la sua voce con le autorità iraniane e ottenga la libertà di una donna che crede negli stessi valori che fanno grande il nostro continente, madre di due figli e moglie di un uomo Reza Khandan che la sostiene e condivide le sue battaglie. Una famiglia segnata dalla sofferenza che il regime iraniano impone a Nasrin e ai suoi cari, ma determinata a difendere i valori in cui crede come dimostrano i post che Khandan scrive su Facebook attraverso i quali ha annunciato anche la nuova assurda condanna comprensiva di frustate.
Ho conosciuto Nasrin Sotoudeh anni fa. Ero a Teheran per seguire le elezioni del Parlamento iraniano e le chiesi di incontrarla per un’intervista. Mi serviva una testimonianza sulla situazione dei diritti umani in Iran e lei era la persona giusta, perché difendeva molti attivisti finiti dietro le sbarre. Arrivai nel suo studio e lo trovai pieno di giornalisti di nazionalità diverse. Lei, minuta con il capo coperto da un velo bianco, incinta del suo secondo figlio ci ricevette uno per uno, rilasciò per ore interviste senza sosta, consapevole che solo in quel modo avrebbe potuto raggiungere le opinioni pubbliche di tutto il mondo e denunciare le gravi violazioni dei diritti umani che accadevano in Iran.
Mi parlò dei minori rinchiusi nel braccio della morte, dei prigionieri politici che marcivano nel carcere di Evin, di come fossero aumentate le condanne capitali con Ahmadinejad e di come fosse diventata più opprimente la cappa di controllo per giornalisti e attivisti. Mi mostrò i poster della campagna “One Million Signatures”, la raccolta di firme a favore della parità di diritti per le donne iraniane. Una campagna sostenuta anche dal Premio Nobel Shirin Ebadi, amica di Nasrin Sotudeh che da tempo vive all’estero lontano dal suo paese. Era stata una lunga intervista, una di quelle che non piacciono al regime iraniano. E Nasrin ne ha fatte tante di interviste simili. Prima di intraprendere la carriera di avvocato Nasrin era stata anche giornalista e aveva lavorato per una rivista sui diritti umani.
Il suo studio è sempre rimasto aperto agli inviati di tutto il mondo ed è stato anche per questi suoi continui contatti con i media internazionali che le autorità iraniane l’hanno punita.
Amnesty International chiede di non far calare l’attenzione sulla sua drammatica vicenda. C’è un appello che si può firmare su Amnesty.it, ci sono gli hashtag #freeNasrin che si possono lanciare su Twitter Istagram e Facebook. Serve una mobilitazione dell’Europa ma anche degli Stati Uniti come quella che portò alla sua liberazione nel passato. In questi giorni all’Onu si sta svolgendo la conferenza CSW63 sulla situazione delle donne nel mondo. E’ il posto giusto per fare pressione sui delegati iraniani.