Tra gli episodi che avevano fatto parlare durante il weekend di fuoco in Venezuela di fine febbraio, insanguinato da almeno 4 morti e centinaia di feriti, c’era stato anche l’incendio di alcuni camion che trasportavano aiuti umanitari al confine con la Colombia, attribuito alle forze di polizia di Maduro. Ve lo avevamo raccontato anche noi della Voce: oltre alla tragica conta delle vittime della violenza dei militari, quell’episodio era stato determinante per innescare una più decisiva reazione della comunità internazionale e, in particolare, degli Stati Uniti all’ONU. Qualche giorno più tardi, infatti, in una sessione-fiume del Consiglio di Sicurezza, Elliott Abrams, diplomatico americano e rappresentante del Paese in Venezuela, senza troppi giri di parole aveva accusato il “regime” di aver dato fuoco ad alcuni dei convogli umanitari durante gli scontri, accusa che il ministro degli Esteri di Caracas, Jorge Arreaza, aveva poi rispedito al mittente.
Abrams, però, era in buona compagnia. Il vicepresidente Mike Pence, in un tweet, aveva scritto infatti che “il tiranno di Caracas danzava” mentre i suoi scagnozzi “bruciavano cibo e medicine”; il Dipartimento di Stato aveva pubblicato un video in cui si sosteneva che Maduro avesse dato ordini di bruciare i convogli umanitari bloccati alle frontiere, e la stessa opposizione venezuelana aveva diffuso video analoghi, subito rilanciati dalle televisioni nazionali e di tutto il mondo, a dimostrazione della crudeltà del “dittatore”. Anche John Bolton, consigliere di Trump sulla Sicurezza Nazionale, aveva addossato a Maduro la responsabilità dell’accaduto in un tweet.
The tyrant in Caracas danced as his henchmen murdered civilians & burned food & medicine heading to Venezuelans. Saturday was tragic for the families of those killed & suffering Venezuelans. But it was just 1 more day in Venezuela’s journey from tyranny to freedom. Maduro must go pic.twitter.com/E1GQyvIbs8
— Vice President Mike Pence (@VP) February 25, 2019
La perseverancia restaurará la democracia y vencerá la tiranía de Maduro en Venezuela. Orden de Maduro de atacar los camiones llenos de ayuda humanitaria es inconcebible. EE.UU. continuará ofreciendo asistencia humanitaria para ayudar al pueblo de Venezuela. #EstamosUnidosVE pic.twitter.com/KKKCx8dTxp
— USA en Español (@USAenEspanol) February 28, 2019
Masked thugs, civilians killed by live rounds, and the burning of trucks carrying badly-needed food and medicine. This has been Maduro’s response to peaceful efforts to help Venezuelans. Countries that still recognize Maduro should take note of what they are endorsing. pic.twitter.com/KlSebd2M5a
— John Bolton (@AmbJohnBolton) February 23, 2019
Qualche ora fa, però, una nuova ricostruzione del New York Times descriverebbe una realtà un po’ diversa rispetto a quella che è stata raccontata. Il quotidiano della Grande Mela ha infatti pubblicato la versione integrale, e non editata, di uno dei video rilanciati dai media internazionali, che mostrerebbe come l’incendio sia stato provocato non dalla polizia e dai militari, ma da un molotov lanciato da un manifestante. Proprio di queste “bottiglie incendiarie” aveva in effetti parlato Arreaza in Consiglio di Sicurezza. La “miccia” a far divampare il fuoco sarebbe dunque stata, secondo le immagini pubblicate dal New York Times, una bomba a mano artigianale fatta con una bottiglia incendiata, lanciata contro la polizia schierata in prossimità dei convogli. Circa mezzo minuto più tardi, il veicolo ha cominciato a bruciare. Il New York Times mette in dubbio anche le accuse secondo cui Maduro avrebbe dato ordine di dare fuoco ai medicinali bloccati al confine, circostanza che, afferma il quotidiano, “appare infondata, in base ai video e alle interviste raccolte”. Doveroso osservare anche come la nuova versione avvalorata dal New York Times fosse stata già precedentemente diffusa da giornalisti e media indipendenti e dallo stesso Cremlino, notoriamente alleato di Maduro.
Circostanze, quelle riferite dal quotidiano, che di certo non cancellano le responsabilità del governo della Repubblica bolivariana e delle sue forze di sicurezza nei fatti di violenza e morte riportati dai media, ma che fanno riflettere sulla potenza della rete nel fornire una rappresentazione non sempre fedele della realtà in contesti di guerre, conflitti e tensioni. In piccolo, qualcosa del genere era successo a gennaio, quando un gruppo di studenti americani della Scuola Superiore Cattolica di Covington, nel Kentucky, in base a pochi secondi di video, erano stati accusati di aver preso di mira un attivista nativo-americano mentre cantava. Successivamente, nuovi video avevano contestualizzato l’accaduto, mostrando come la zuffa fosse già iniziata tra gli studenti cattolici e un gruppo di afro-americani “Ebrei di Israele”, e come l’arrivo dei nativi-americani fosse stato accolto in un clima di goliardia più che di minacce. Non c’è parola definitiva sull’accaduto, né emerge una versione che possa senza ombra di dubbio scagionare i ragazzi dalle accuse originarie di razzismo e strafottenza: ma le versioni integrali delle immagini suggeriscono che la vicenda era perlomeno più complicata del suo racconto iniziale.
E sempre sul Venezuela, qualche giorno fa la CBS ha pubblicato un lungo articolo di rettifica e scuse, ammettendo di essere “inciampata” con tutte le scarpe nella rete della propaganda parlando del ponte tra Colombia e la Repubblica bolivariana vicina, ponte che, secondo la versione anti-Maduro, sarebbe stato appositamente bloccato per non far entrare gli aiuti umanitari. In realtà, ha ammesso la stessa emittente, la foto diffusa per supportare questa versione “non racconta l’intera storia”. “Sì, Maduro ha ordinato che i container restassero lì, e no, non vuole che gli aiuti internazionali entrino da quel passaggio”, hanno specificato. “Ma la domanda è: il ponte potrebbe essere usato per portare gli aiuti dalla Colombia se non fosse stato bloccato?”. La risposta, contrariamente a quanto raccontato, è no: perché quella infrastruttura, la cui costruzione si è conclusa nel 2016, è rimasta chiusa per anni e, di fatto, non è mai stato aperta a causa delle sussistenti tensioni tra i due Paesi confinanti. La fake news era stata avallata dal tweet del Segretario di Stato Mike Pompeo, subito rimbalzato sui media.
The Venezuelan people desperately need humanitarian aid. The U.S. & other countries are trying to help, but #Venezuela’s military under Maduro’s orders is blocking aid with trucks and shipping tankers. The Maduro regime must LET THE AID REACH THE STARVING PEOPLE. #EstamosUnidosVE pic.twitter.com/L4ysYJaM6H
— Secretary Pompeo (@SecPompeo) February 6, 2019
La morale di questa storia non è, e non vuole essere, una difesa del governo Maduro, che nella crisi del suo Paese ha certamente enormi responsabilità. Piuttosto, un invito alla cautela. È la stessa storia a testimoniare gli effetti che una propaganda avvelenata a supporto di un interventismo imprudente e non ponderato ha avuto sul destino di intere regioni del mondo. Dal Vietnam all’Iraq, passando per la Libia, gli esempi si sprecano. Nell’era del web e dei social network, delle verità istantanee, dell’informazione a ciclo continuo, ribattuta e mai verificata, le minacce da cui guardarsi sono parecchie. Ed è la prima cosa da fare, se davvero si ha a cuore la voglia di libertà e democrazia del popolo venezuelano.