Nella cornice di una splendida giornata di primavera italiana, in una sala da “grande bellezza” romana, quella degli Orazi e Curiazi in Campidoglio, la cerimonia dei sessant’anni dalla firma dei trattati CEE e EURATOM è stata un momento di enorme successo per il rilancio dell’UE. Evidente, anche nella gestualità dei massimi leader dell’Unione Europea, il clima di festa, quasi di euforia, sottolineato da pacche sulle spalle, pugni alzati in segno di vittoria, braccia aperte in grandi abbracci ai colleghi, che molti degli attori hanno spontaneamente esibito.
Uno spettacolo offerto al mondo, attraverso i collegamenti televisivi, e che i 1050 giornalisti accreditati avranno modo di raccontare.
Il messaggio era evidente, come peraltro scritto nella Dichiarazione approvata dai 27 capi di stato e di governo e sottoscritta dai presidenti di Consiglio, Commissione e Parlamento Europei: “La nostra Unione è indivisa e indivisibile.”.
In un vertice straordinario che sino alla vigilia minacciava l’impossibilità di sottoscrivere la dichiarazione comune, a causa dell’opposizione, da posizioni antitetiche, di Polonia e Grecia, si è toccato con mano quanto sia grande l’”amicizia” tra i paesi membri e i loro governanti, al di là e oltre le diversità politiche, socio-economiche e culturali, che caratterizzano il grande territorio dell’Unione. Si è fatto notare in particolare l’abbraccio e il sorriso impacciato che la primo ministro polacca, Beata Szydlo, ha indirizzato ai colleghi dopo aver firmato la Dichiarazione di Roma. Sembrava voler dire: “Vedete che, nonostante tutti i bisticci delle scorse settimane, ci sono?”. Szydlo, da sempre su posizioni poco solidali con i partner su materie come l’accoglienza ai richiedenti asilo, si era infuriata per la conferma del polacco Donald Tusk, già primo ministro di un governo polacco di orientamento diverso, a presidente del Consiglio Europeo, minacciando di boicottare la vita dell’UE. La sua firma è stata sottolineata dal grande applauso dei colleghi.
Peraltro, proprio il pacato discorso di Tusk, con il richiamo ai cicli della sua vita di polacco nato contemporaneamente alla Cee, sessant’anni fa, nella Danzica dapprima vittima della connivenza nazi-staliniana, poi occupata dall’Armata rossa, quindi liberata dal sindacato Solidarnosc nel quale Tusk ha militato, ha contribuito con efficacia a inserire nel contesto delle celebrazioni la storia dell’”altra” Europa, quella estranea alla genesi delle istituzioni comuni, ma anch’essa desiderosa di libertà e socialità, benché così tanto fatichi a integrarsi nella logica comunitaria.
E’ che, almeno nella giornata romana, i 27 hanno tenuto a raccontarsi alle opinioni pubbliche, come convinti ed entusiasti sostenitori del progetto europeo, nonostante gli stop and go che ne caratterizzano la storia. Si leggano le seguenti parole della Dichiarazione di Roma e si ha l’esatta percezione dell’aria che tirava in Campidoglio sabato 25 marzo: “L’unità è sia una necessità che una nostra libera scelta. Agendo singolarmente saremmo tagliati fuori dalle dinamiche mondiali. Restare uniti è la migliore opportunità che abbiamo di influenzarle e di difendere i nostri interessi e valori comuni”.
Da qui il relax festoso dei capi di stato e di governo, e dei responsabili delle istituzioni. Al termine della cerimonia sono imperversati i selfie dei primi ministri, e le foto inviate ad amici e parenti. Il presidente del Parlamento Europeo, Antonio Tajani, ha ritenuto di dover prendere fogli con le firme apposte dai Ventisette, ed innalzarle per la foto dei presenti interessati. Il tutto nella disperazione del cerimoniale.
In barba alle tradizioni tecnocratiche e curiali, l’Unione ha realizzato la sua mattinata fuori dagli schemi, mostrando “umanità” e politicità, adottando il linguaggio di chi vuole farsi capire dal “popolo” e in particolare dai giovani. Anche attraverso i brevi audiovisivi inseriti tra un discorso e l’altro, a gloria di padri fondatori, dei successi conseguiti in sessant’anni, ma anche nell’evidenza di errori e ritardi nel dare risposte alla crisi che troppa gente soffre sulla propria pelle.
Ha funzionato il richiamo visivo posto al centro della scena: “Identità, Memoria”. Sono due elementi che alla presente Unione servono come il pane: ritrovare le ragioni identitarie che spiegano lo stare insieme al quale ventisette popoli si sono votati, con la memoria dei successi e degli insuccessi verificati in sei decadi di storia.
Nel dopo Brexit, nessuno immagina più l’uscita polacca, come non c’è stata a suo tempo l’uscita greca. L’Unione ha forza e strumenti per solidarizzare e smussare: il compromesso tra i diversi resta la regola obbligata per far sì che vi sia condivisione di metodi e obiettivi. Non è casuale che il motto scelto per quest’Unione al momento della costituzione sia stato “Unity in Diversity”: la diversità vi ha legittima cittadinanza, pur nella necessitata ricerca di unità di intenti e fini.
Va sottolineato come l’aver enunciato, nella Dichiarazione di Roma del 25 marzo 2017, che gruppi di stati membri possono procedere alla realizzazione di obiettivi che altri non condividono, non sposta in nulla il principio richiamato. E’ vero che sul punto più paesi dell’Europa centro orientale hanno presentato rimostranze, e che in particolare la Polonia aveva minacciato di non firmare il documento laddove si esprimesse a favore dell’Unione a più velocità, ma la formula adottata ha solo ribadito il principio presente nei trattati di Lisbona, quello delle cooperazioni rafforzate. “Agiremo congiuntamente, a ritmi e con intensità diversi se necessario, ma sempre procedendo nella stessa direzione, come abbiamo fatto in passato, in linea con i trattati…”. Le cooperazioni rafforzate hanno trovato già diverse realizzazioni. Le più conosciute l’euro (adottato da 19 dei 27), e la libera circolazione delle persone regolata dall’accordo di Schengen (la praticano 26 paesi europei, 22 dei quali membri dell’UE)
Più complesso deve essere stato creare consenso sulla parte della dichiarazione che riguarda il rilancio dell’Europa sociale, voluta in particolare da paesi mediterranei come Italia e Grecia. Si è andato ad incidere sul conflitto che oppone chi chiede il ritorno alle origini (l’Unione si fonda sull’economia sociale di mercato, ovvero su scuola renana socialdemocratica e pensiero sociale della chiesa), a chi (soprattutto i paesi dell’Europa centro orientale) resta tentato dalle soluzioni di liberismo estremo di scuola anglo-sassone e statunitense.
Roma ha partorito il documento, scritto e firmato, che garantisce il rilancio dell’Europa sociale, capace di tornare inclusiva, dare lavoro e crescita, accogliere i migranti e i richiedenti asilo, garantire ambiente e sostenibilità. Si tratta di cose difficilissime da realizzare e sulle quali, peraltro, di questi tempi si registra anche la pressione di politiche uguali e contrarie in pancia ai nazional-populisti e alla nuova amministrazione statunitense.
In più, la faccia di politica internazionale delle politiche sociali è rappresentata dal multilateralismo e dalla negazione del protezionismo, in opposizione anche in questo caso ai principi trumpiani su bilateralismi e liberismo commerciale.
La scelta sociale ribadita dall’Unione, troverà conferma a breve nell’apposito documento della Commissione, e soprattutto nella piattaforma operativa che scaturirà dal vertice sociale autunnale di Göteborg in Svezia. Il timore che i nazional-populismi possano prendere il potere in qualche paese dell’Unione (sotto osservazione stanno, in questa fase, Francia e Italia) spiega molto rispetto alla virata sociale delle istituzioni comuni. In qualche modo è collegata alla scelta anche la decisione di procedere verso meccanismi di difesa comune, previsti nella Dichiarazione di Roma. E’ un altro modo efficace di rispondere a “sovranisti”, visto che le forze armate sono da sempre, considerate, nell’immaginario dei nazionalismi, soggetto sensibile.
A margine della giornata del 25 marzo, può dirsi che non si sia avvertita l’assenza della Gran Bretagna, bastian contrario di ogni passo in avanti delle istituzioni, mai disposta al compromesso nei quarant’anni e più di memebrship, finalmente rientrata nello storico “isolationism” che nutre il mito del suo nazionalismo democratico. Spiace notarlo in giorni nei quali ogni buon europeo si sente vicino a Westminster, culla della comune cultura democratico liberale.
Paradossalmente spiace anche leggere che in Cornovaglia gli abitanti della regione che ha massicciamente votato per l’uscita dall’Unione solo ora apprendano che la loro crescita economica e l’uscita dall’arretratezza nella quale erano tenuti dal governo centrale di Londra, le devono agli aiuti della politica regionale europea. E’ una sorpresa non molto diversa da quella dei gallesi, ai quali nessuno ha mai detto che uscendo dall’Unione avrebbero perso i 2 miliardi di euro loro assegnati da qui al 2020 dalle stesse politiche di sviluppo e inclusione sociale.
Ciò che i britannici non hanno voluto o saputo comprendere, è che, come recita la dichiarazione di Roma con riferimento ai paesi balcanici candidati all’adesione negli anni venti, l’istituzione di Bruxelles è aperta a quei paesi europei che rispettano i suoi “valori e si impegnano a promuoverli”, ma in modo coerente si chiude a riccio dinanzi ai paesi che li negano. L’Unione Europea si autodistruggerebbe se abbandonasse apertura sociale e inclusività, se rinunciasse all’accoglienza, se accettasse la pena capitale, e così via.
Come sempre in politica, il futuro dirà quanto della Dichiarazione di Roma sarà effettivamente trasferibile in azioni e comportamenti delle istituzioni comuni e degli stati. Ciò che rende fiducioso ogni europeista in questa fase, è che il rischio del nazional-populismo da un lato, lo spessore dei rischi economici e sociali che si abbattono sul vecchio continente dall’altro, spingano i paesi del gruppo di testa a varcare il guado avviando cooperazioni rafforzate in settori chiave.
E comunque, se ciò avvenisse, occorrerebbe poi vedere come reagirebbero da un lato gli elettori degli stati membri, e dall’altro la potenza americana che in questa fase vede le integrazioni multilaterali come il fumo negli occhi.