Alfredo Romeo, imprenditore, di Napoli, è, per ora, lo special guest dell’indagine Consip: la S.p.a. di cui è unico azionista il ministero delle Finanze, e che, per statuto, è il punto di coagulo di tutti gli acquisti della Pubblica Amministrazione italiana.
Romeo ha assunto speciale risalto perché, dagli atti depositati in edicola, risulterebbe che “incontrò Tiziano Renzi”. Tiziano, padre di Matteo, com’è universalmente noto.
Tentiamo di decrittare quanto viene riportato, con una precisazione preliminare.
Le dichiarazioni considerate provengono da due persone: una è Alfredo Mazzei, commercialista, anch’egli di Napoli, che si presenta come amico di lunga data di Romeo, “ci conosciamo da più di trent’anni”; l’altra è Marco Gasparri, dirigente della Consip, sottoposto ad indagine. Entrambi sono già stati convocati dalle Procure procedenti (prima quella di Napoli, poi quella di Roma) per essere interrogati. Il primo, interloquendo senza difensore (non essendo accusato di alcun reato), ha deposto su una quantità di conversazioni telefoniche avute con Romeo; ora in carcere a titolo cautelare. Le sue dichiarazioni pare fluiscano senza avvertire l’ombra dell’amico ristretto, anche perché, come ha egli stesso certificato, “questa amicizia non mi ha mai impedito di tenere sempre nettamente distinti il mio impegno professionale dalle mie relazioni sociali e politiche”. La seconda persona, Marco Gasparri, dirigente della Consip, viene senz’altro presentato, dal Corriere, come reo confesso.
Ciò premesso, inutile interrogarsi sul valore di queste dichiarazioni: sono state rese a piede libero, sicchè non c’è motivo di dubitarne. Nè c’è da avanzare facili ironie: sul teorico timore che, il mantenimento di questo status, potesse in qualche modo dipendere dal contenuto di quanto affermato o negato. Se anche ci fosse stato, questo timore, ogni indagine alimenta una sequela di lacerazioni, e di piccole (o grandi) tragedie, a cui è buona misura sempre accostarsi con rispettosa prudenza.
Anche perché, i due non hanno accusato proprio nessuno, a ben vedere.
Mazzei, nell’intervista/s.i.t. (sommarie informazioni testimoniali che, di solito, si rendono alla Polizia Giudiziaria o al Pubblico Ministero) concessa a Repubblica, dice: che è stato un sostenitore politico di Renzi (figlio), sin dalla prima ora, “anche se poi è arrivata la delusione, ma lasciamo stare…”; che Romeo, dopo un primo processo in cui era stato tratto in arresto, e poi, dopo sei anni, assolto, insisteva perchè lo aiutasse a procurarsi una non meglio precisata “riabilitazione politica” presso Matteo Renzi, senza che però ne sortisse alcunchè; che gli parlò di un certo Carlo Russo, giovane imprenditore trentreenne toscano che, urbi et orbi, affermava non di conoscere, ma “di potere avvicinare” Tiziano Renzi.
Dunque è un racconto di un racconto. Il racconto del racconto così prosegue. “Russo aveva fama di essere un superficiale. E in coscienza lo dissi a Romeo, suggerendo di starne alla larga”; sembra una conversazione al caminetto; infatti, il giornalista/verbalizzante pensa bene di invitare Mazzei ad andare al “sodo”: se Renzi padre, Russo e Romeo si incontrarono.
E vediamolo, questo “sodo”. “Da quel che mi disse Alfredo [Romeo, n.d.r.], cenarono o pranzarono insieme”, in “una bettola”, per non dare nell’occhio, arguisce; “…Mi raccontò che entrò da un ingresso riservato, attraverso il cortile di un palazzo che aveva due uscite”. Bettola, con ingresso riservato. Proseguiamo. Proprio a questo punto, infatti, il racconto al quadrato vorrebbe rassodarsi: “Romeo disse qualcosa che aveva questo senso: ‘hai capito quei due.…?” Tuttavia sarà stato un ammiccamento, o altra imperscrutabile espressione: altrimenti si può ragionevolmente ritenere che avremmo avuto una frase più impegnata. A questo punto, già che si è aperta la via, viene chiesto a Mazzei ciò che, non lui, ma Romeo intendesse con quella non-frase, magari “..se si parlò di soldi e appalti”; risposta: “Non posso saperlo. Ma ebbi l’impressione che quella cena riservata servisse proprio a parlare di strategie…”. Non può saperlo; ebbe l’impressione; strategie.
Gasparri, dal canto suo, dice di voler descrivere un “gravissimo quadro di possibile infiltrazione criminale”. E’ gravissimo, il “quadro”, ma non c’è; certo, resta pur sempre possibile. Magnifico. Anche Gasparri parla di riflesso: “Romeo mi disse”. Però “Romeo non mi disse chi era il politico o i politici presso i quali era intervenuto..”; non si sa chi, e neanche quanti; però, dice di aver saputo che “si trattava del livello politico più alto”. Non ne sappiamo molto. Nell’ordinanza cautelare si legge di soggetti “…attivissimi nel proporre accordi, veri o falsi, individuare referenti reali o supposti, stabilire tangenti effettive o ipotetiche”. Veri o falsi; reali o supposti; effettive o ipotetiche: gli aggettivi si inseguono in circolo.
Con l’aiuto di un decreto di perquisizione, disposto nei confronti di Russo (il trentatreenne, che secondo Mazzei “aveva fama di essere un superficiale”), tentiamo di cogliere una sintesi: “emerge” un intenso “uso di relazioni” si legge; relazioni “proprie” di Russo, e “relazioni di Tiziano Renzi”. In tanta “emersione”, dobbiamo ricordarci che Romeo sarebbe un corruttore; infatti, ci sarebbe “una promessa” di “somme di denaro mensili”, pure a Renzi Sr, a cui, anche “…da un appunto vergato dallo stesso Romeo, appare destinata parte della somma promessa”. Appare. Destinata. L’appunto è un foglietto di carta, preso, insieme ad altri, o “nella spazzatura dell’ufficio romano di Romeo”, secondo il Corriere, e sobriamente “recuperati dai carabinieri”; ovvero “sequestrati in discarica”, secondo Repubblica, e più alacremente restituiti al mondo intellegibile “…dal certosino lavoro dei carabinieri”.
Gasparri, infine, riferisce un, chiamiamolo, “convincimento appreso”: secondo cui “…Romeo si riteneva vittima di un complotto all’interno di Consip e di essere discriminato…”; a fugare ogni impressione, anche solo effimera, che Romeo nelle altrui memorie paia trascorrere dalla lucida orditura al deliquio persecutorio, imperturbabile, ci soccorre di nuovo l’ordinanza cautelare, che spiega: “legittima difesa criminale, rispetto alle condotte di altri imprenditori e vertici politici e istituzionali, volte all’esclusione dell’imprenditore campano”. Legittima difesa criminale.
Fermiamoci qui. Fermiamoci alla facondia nebulosa, cui inevitabilmente finisce col condurre la ricerca del “Traffico di influenze illecite”.
Nonostante “il trapelato” non largheggi in capacità persuasiva, si potrebbe, nondimeno, essere tentati di sostenere che un diuturno giretto ai giardini pubblici, per Tiziano Renzi, sarebbe potuto risultare più riuscita spendita del proprio tempo. Che, in questo demi-mond, non si avverte la distanza rassicurante, la distinzione netta. Che una vicenda politica, sorta solo tre anni fa, e ormai martoriata da invecchiamento precoce, in fondo, avendo giochicchiato col fuoco dello squilibrio fra i Poteri, si è politicamente meritata un crepuscolo più cupo che struggente. Lo si potrebbe anche sostenere: ma non si deve.
Non sotto il ringhio delle manette; non se si aborre che l’Italia diventi un luogo in cui ogni parola, ogni incontro, ogni spazio di vita negoziale, avverta su di sè l’alitare di una pedagogia minacciante, di un precettore sociale con il diritto sotto i piedi e il gulag nel cuore; non se ogni condotta umana, in Italia, negli anni avvenire, si avvia ad essere sottratta alla varia e articolata scala di valutazioni che, spaziando dall’inopportuno all’abominevole, sola consente una vita sociale munita di quel bene, senza del quale, ogni altro si spegne: la libertà.