Ha rincorso per tutta la vita le sirene. E infine ha capito di esser stato sedotto dal loro silenzio, nel quale è scomparso.
Giorgio Albertazzi più di Enrico V, Cesare, Adriano è stato Ulisse. Perché per la bellezza era pronto a naufragare ogni volta di nuovo. “Nella mia vita ho aggiunto bellezza a bellezza e posso rispondere solo al bello”.
La vita interiore del più grande attore di teatro del nostro Paese è tutta nell’affascinante scrittura scenica “Il silenzio delle sirene”, che affidò una quindicina di anni fa a una piccola e raffinata casa editrice di Padova, le Edizioni Ninfee.
“Circe è una maga: non lo dimentichi” ammonisce nel testo Giorgio Albertazzi, rivelando che cominciò a declamare i versi di Dante per far colpo sulla sua professoressa del liceo, sirena dai capelli rossi e occhi verdi. L’anno seguente smise di studiare, perché lei non era più la sua insegnante e fu rimandato a settembre. Scelse di fare l’attore per sedurre, attrarre a sé la donna, irraggiungibile sirena e pericolosa maga.
E’ in una calda notte stellata che Ulisse percepisce che le sirene esistono davvero e osserva: “Se la loro arma più terribile non fosse il canto, ma il loro silenzio? Chi può resistere all’illusione di averle ammansite, di averle ridotte al silenzio?” L’incontro con le donne come sfida, che l’eroe deve vincere perché l’abbandono sia rimpianto, nient’altro che un seducente distacco. E portare con sé solo il silenzio di dimenticati amori. Teme di non incontrarle però, le sirene. Ah, non poter ricordarne la curva del collo, l’anca sontuosa, le labbra dischiuse, il seno palpitante. Tragico è non poter avere ricordi per prendersi in giro e giocare con le proprie memorie. Ma ecco che incontra e conquista Circe, che gli confessa: “Io, la dominatrice delle passioni, la maga, sono diventata donna per te”. E allora sente di essere un eroe e l’abbandona per seguire il suo destino: altre sirene.
“Su! Coraggio! – la consola Lampone, l’alter ego di Ulisse. – Ridursi in questo stato per un uomo! Perduto uno, dieci ritrovati. Su, bella signora, non ci pensi più!” E poi si rivolge a Ulisse: “Lei non ride mai. Ci faccia una bella risata omerica. Su tutto quello che ha fatto: il re, l’eroe, il padre, il marito. Ne ha fatte tante, le ha combinate tutte, eppure non è a posto. Perché ha vissuto la vita di tutti, meno la sua”.
Albertazzi invece sapeva vivere perché sapeva ridere. Anche di se stesso.
Come Ulisse, le donne le amava tutte e si fermava a ogni richiamo. “Sono tutta l’estate che la inseguo” gli disse una graziosa ragazza mora, avvicinandolo all’uscita del teatro dopo uno spettacolo, e ricevette un appuntamento per l’indomani. Ma era solo una sosta perché lui ha rincorso fino alla fine la donna fatale “colei che dà il desiderio di morire lentamente sotto il suo sguardo”.
Non so se l’abbia incontrata, ma Albertazzi è stato davvero “fatale” non solo per molte donne, ma per la cultura italiana, perché possedeva un potere sciamanico. Con lui sono naufragati i nostri sogni di Bellezza. Insieme a Vittorio Sgarbi, Marcello Veneziani, il suo agente Giuseppe Maria Perrone e il suo editore Luigi Lamannis, vent’anni fa aveva fondato il “Ministero della Bellezza”. Erano, sono gli ultimi rappresentanti di una cultura di destra profonda, immaginifica e raffinata, che era iniziata con D’Annunzio, Evola, Prezzolini, Flaiano, Longanesi, Savinio, De Chirico.
Se per Renzi “la cultura è il futuro del mondo”, non servirebbe ripartire da lontano. Giorgio ripeteva: “La bellezza è l’unica cosa che ci salva: la gente quando esce dai musei è migliore di quando vi è entrata. Non c’è arte e non c’è stile dove non c’è armonia”. Per questo si considerava un dandy e spiegava che “dandy non è colui che è nobile di nascita, ma chi riesce a sublimarsi attraverso la bellezza”. Di conseguenza “un attore che dice di essersi calato nel personaggio non ha capito niente. Il personaggio non esiste. L’attore trasmette le emozioni che gli ha dato il testo. Quando recita continua a vedere se stesso. Non deve fare l’albero, ma essere l’albero. Deve creare una specie di collusione metafisica, una allucinazione. Recitare è un mestiere evocativo, un potere di suggestione potente. Non è mistica, è metafisica questo evocare dentro di sé. E ci vuole passione”.
Recitando in “Giulio Cesare” di Shakespeare, Giorgio Albertazzi è stato Cesare, Cassio, Marcantonio e pure il giovane Bruto. Che dice: “Non vogliamo uccidere Cesare, ma lo spirito di Cesare”. Ci ha lasciato anche una grande lezione politica da raccogliere.