Il 7 maggio, alla Casa Italiana Zerilli-Marimò di New York, in collaborazione con Rizzoli Bookstore, Arianna Farinelli presenta il suo nuovo libro, Storia di una brava ragazza (Einaudi, 2025), in dialogo con Eugenio Refini. Un memoir che parte dal corpo, attraversa la vergogna e affronta una domanda che molte si portano dietro da una vita: come si smette di essere “brave” e si comincia a essere libere?
Il titolo è ironico, ma affilato. Perché “brava ragazza” non è un complimento, è una trappola. La protagonista – alter ego dell’autrice – nasce in una borgata romana a fine anni Settanta, cresce tra reti locali che trasmettono Colpo grosso e genitori che non pronunciano mai parole come “vagina”. L’immaginario sessuale è una parata di seni scoperti, bocche laccate e cosce in primo piano. Ma a casa, a scuola, ovunque, sul sesso cala un silenzio opaco, carico di vergogna.
Il romanzo si apre con una scena precisa e disturbante: una bambina osserva il corpo nudo della madre in bagno e lo paragona al suo. Una tana, una grotta, un mistero. È l’inizio di un apprendistato sulla corporeità femminile come stigma e come frontiera. “Ho impiegato quasi cinquant’anni per non vergognarmi più”, scrive Farinelli. “Le donne della mia generazione hanno subito soprusi indicibili. Alcune hanno trovato il coraggio di raccontarli. Ma non sono state credute. Ecco: smettiamola di non crederci”.
Non c’è indulgenza, né pedagogia. C’è un corpo che cambia, che viene osservato, giudicato, adattato a misura di desiderio maschile. Un aspetto che raramente corrisponde a ciò che dovrebbe essere. “La bellezza ci dava valore”, scrive, “e quando mancava — perché difforme da quella delle donne di copertina — sentivamo di non valere niente”.
La protagonista cresce, si interroga, si difende. Diventa donna in un mondo che le chiede di essere attraente ma silenziosa, performante ma invisibile. E anche quando ce la fa – quando parte per gli Stati Uniti, studia, insegna, lavora, si sposa – il patriarcato la segue. Cambia solo forma. Non più aggressivo e goffo come quello di periferia, ma sottile, elegante, insinuato tra le strette di mano e le email di lavoro. “A una cena elegante nell’Upper East Side mi hanno detto: ‘Le donne non sono abbastanza brave per certe posizioni’. Spoiler: lo dicevano seriamente”.
La forza del libro non sta nel linguaggio militante, ma in quello quotidiano, che non ha bisogno di accusare perché mette a nudo — e a nudo, molte ci si ritrovano. Farinelli non cerca di convincere, ma racconta cosa accade quando ti accorgi di aver vissuto secondo regole imposte. “Da mia madre, una barista con la terza media, ho imparato più che da tanti libri. Non sapeva cosa fosse il femminismo, ma lo praticava. L’ho capita dopo”.
Così Storia di una brava ragazza si apre a una coralità fatta di voci che si tramandano fuori dai libri di testo: Annie Ernaux, bell hooks, Virginia Woolf, Susan Sontag. Le vedi tra le righe, ma non fanno le professoresse. Lasciano il segno, come cicatrici.

Arianna Farinelli ha una figlia. È a lei che pensa, scrivendo. E a tutte quelle che stanno arrivando. Le “brave ragazze” a cui si insegna ancora a sorridere, a essere magre, a non disturbare. “Nel libro ho cercato di trasformare l’amarezza e la disillusione in forza propulsiva. Per lei, e per le sue coetanee, dobbiamo preparare un futuro migliore. Non fate come me. Non vivete da belle addormentate”.
Non manca la critica alla complicità, anche femminile, con lo status quo, ma non è una dichiarazione di guerra: è una diagnosi. “Anche gli uomini sono vittime, a modo loro, del patriarcato, ma non per questo si molla la presa. In situazioni sessiste ci sono caduta in pieno, ho dubitato di me stessa, di ciò che credevo, di ciò che sentivo. Come se fossi cresciuta col riflesso condizionato di mettermi sempre in discussione”.
La presentazione sarà un’occasione per discutere di sessismo, maternità, educazione ma anche di libertà, quella concreta, che non si eredita e non si dichiara: si costruisce, spesso disimparando tutto, anche ciò in cui si è creduto per anni.