Lo sguardo calmo, il sorriso sempre sul viso e l’animo instancabile. Don Luigi Portarulo, 36 anni, in poco meno di due anni, è diventato il prete degli italiani a Manhattan e, con il trasferimento nella cattedrale di Saint Patrick sulla 5th Avenue e in Old Saint Patrick a Soho, anche dei newyorkesi. Con la fine dell’estate e l’inizio della scuola, ricominciano anche le attività in parrocchia, oltre all’anno liturgico. Da domenica, riprende il catechismo per tutti i ragazzini di kindergarten e middle school – per il momento in italiano. E, in occasione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, alla presenza del vicepresidente del Consiglio e ministro degli Affari Esteri Antonio Tajani verrà celebrata una messa il 22 settembre alle 14:30 alla cattedrale di Saint Patrick, la prima in italiano. Ma le proposte di Don Luigi sembrano inesauribili. “Voglio mettere a disposizione della comunità tutto lo spazio che ho”.
Quali sono le prossime attività?
“Oltre a prestare servizio normale nelle due parrocchie, con battesimi, matrimoni, messe quotidiane in inglese, vorrei riprendere anche le funzioni in italiano perché è questo l’obiettivo che abbiamo con il cardinale Timothy Dolan: fare di Old Saint Patrick un punto di riferimento per la nostra comunità. Poi non è escluso che il catechismo che facciamo per i ragazzini italiani, che si svolgerà ogni domenica a Nolita prima della celebrazione, non venga esteso anche agli americani. Da ottobre ci saranno anche le Italian e le English Classes: a diversi livelli, organizzeremo delle lezioni, con un massimo di 10-15 persone, degli insegnanti per imparare l’italiano e praticare la conversation in inglese. Gli adulti, soprattutto coloro che arrivano qui per lavoro dopo aver già concluso gli studi, mi hanno detto di voler allenare l’inglese e lo stesso vale per la nostra lingua, perché ci sono tanti americani interessati ad approfondirne la conoscenza, non solo della grammatica, ma anche della letteratura, dell’arte, della storia. Con il cardinale pensavamo anche di fare delle cooking class di cibo, a base di pizza o di pasta, coinvolgendo i ristoratori. Integreremo anche la proposta di un cineforum, una volta al mese, con film in italiano ma sottotitolati in inglese e una discussione a fine proiezione. Abbiamo una palestra che vorrei aprire al pubblico magari con delle attività sportive. E poi gli spazi a Nolita sono già messi a disposizione per la comunità, con gli incontri settimanali del movimento di Comunione e Liberazione, le varie associazioni italiane che mi chiedono di uno posto libero, perché sappiamo che le nostre case qui sono molto piccole per ritrovarsi tutti insieme. Gli ambienti della chiesa devono essere uno spazio condivisibile da tutti dove tutti, giovani e adulti, possano ritrovarsi e sentirsi un po’ a casa. Voglio sottolineare che sono attività organizzate dagli italiani, per gli italiani, ma da quando sono qui vedo anche l’importanza di aprirle agli americani per uno scambio interculturale dove insieme, nonostante le origini diverse, si possano portare avanti dei progetti comuni”.
Per quanto riguarda il catechismo, di quante famiglie stiamo parlando?
“Sono un bel numero, per il momento. Forse 40 o 50 e sicuramente andranno ad aumentare con l’arrivo dell’inverno. Ci sono anche gli amici o le persone che ho incontrato andando in giro per New York, nei ristoranti, nelle pizzerie, nelle aziende: chi mi chiede di essere battezzato, chi di ricevere i sacramenti, chi di accogliere o introdurre la propria moglie o marito alla vita di chiesa”.
Come ha creato e mantenuto i contatti?
“Ho conosciuto le famiglie del catechismo principalmente attraverso il servizio alla Scuola d’Italia, dove io insegno da tre anni ormai. Oltre a fare religione, lì ho riscoperto che ci sono tanti genitori che volevano avere anche una vita parrocchiale, dove uno ha la chiesa come punto di riferimento per vivere la comunità attraverso il catechismo e le attività dell’oratorio, non solo come luogo dove andare a messa. Inaspettatamente, c’è stato un riscontro positivo di tante famiglie che si sono contattate tra di loro, che mi hanno cercato venendo a sapere della mia presenza a New York, chiedendomi come potessero partecipare e rispondendo al desiderio di voler mantenere un contatto con le proprie radici, nonostante vivano qui. Credo che le origini rimangano sempre fondamentali e vive e si percepisce la volontà di ritrovarsi per vivere nella propria lingua natale i sacramenti, la vita spirituale, perché ci si riesce a esprimere in un modo anche più estemporaneo, più diretto, col cuore”.
C’era qualcuno prima di Lei che insegnava religione alla Scuola d’Italia?
“Sì, c’era Padre Angelo (Plodari, ndr) che andava di tanto in tanto. Quando sono arrivato, ho pensato che fosse bello coinvolgere questi ragazzi nelle attività della parrocchia. Per esempio, alla fine della comunione, canteranno alla messa del 22 settembre. Oggigiorno, viviamo in una società in cui dobbiamo andare incontro alle persone, far vivere loro la fede, in quanto sacerdoti e testimoni, non solo negli ambienti strettamente ecclesiali. Non possiamo aspettare che la gente venga in chiesa. Dobbiamo stare all’interno della società e invitare le persone a venire”.
Che rapporto ha con le istituzioni, sia l’amministrazione di New York sia il Consolato Generale d’Italia?
“Per il momento, con il Comune non ho molti contatti, ma in futuro sarebbe bello invitarli per crescere e formarsi ulteriormente. Con il Consolato, invece, sono nati dei rapporti veri. Quando sono arrivato a novembre 2022, non conoscevo nessuno e ho partecipato ad alcuni degli eventi nella sede di Park Avenue. Poi anche loro hanno cominciato a venire in chiesa. Reciprocamente, andando nei diversi ambienti, è nata un’amicizia e ci si è resi conto che è bello essere al servizio della stessa comunità italiana in modi diversi, ma collaborando. Abbiamo iniziato a pensare che tante iniziative potessero essere fatti insieme o rispettarsi per non avere sovrapposizioni, come qualche messa, oltre a quella della Festa della Repubblica, a novembre faremo quella per le Forze Armate. Perché ci rivolgiamo alla stessa comunità. E poi vedo che le persone notano che siamo sempre gli stessi in luoghi diversi. Quello che conta non è il posto, ma è quello che siamo come esseri umani. E noi stiamo crescendo in relazione gli uni con gli altri facendo sì che ci si senta in famiglia. Ed è bellissimo ritrovarsi: mi capita sempre più spesso di prendere la metro o camminare davanti a un locale e conoscere alcune persone, come un piccolo paese in Italia nonostante siamo in una grande metropoli. Oppure venire contattato dall’Italia e organizzare delle cene per far sentire meno solo i giovani appena arrivati. Tutto questo rafforza anche l’entusiasmo e il desiderio di voler costruire tante cose belle”.
Potrebbe fare un confronto fra il suo trasferimento qui a New York nel novembre 2022 e quello di questa estate da Our Lady of Pompeii alla cattedrale di Saint Patrick?
“Intanto, vorrei sottolineare che non mi aspettavo per niente di venire a New York. Non avevo il sogno americano di tanti. Non c’ero mai stato né conoscevo l’inglese. Quando mi è stata fatta questa proposta, mi sono confrontato con Padre Angelo, che all’epoca era parroco di Our Lady of Pompeii, e con alcune persone in Vaticano, che mi hanno detto che, con la mia personalità, avrei potuto fare del bene alla comunità newyorkese. Ad avermi convinto definitivamente è stato il giorno della chiamata ufficiale, che era lo stesso del compleanno di Papa Giovanni Paolo II, che per me è stata una figura fondamentale nell’avermi trasmesso la vocazione. L’ho interpretato come un segno della Provvidenza. E quindi mi sono lanciato in questa avventura. Non nego che, quando sono arrivato qui, ero spaesato ma incontrando le persone mi sono reso conto che, come tutto quello che ho vissuto nella mia vita, non era a caso, ma c’era un motivo. Ora vivo con gioia il mio ministero. Poi mi è stata fatta la proposta, altrettanto inaspettata, di venire a Saint Patrick e dalla piccola comunità locale a una più universale, come quella che vivevo a Roma. Mi rendo conto che, stando a contatto con così tante persone di culture, origini, fedi diverse, ogni avvenimento è un pezzo del disegno di Dio e io mi affido alla Sua volontà. Ci sono delle cose che sono una Sua opera perché razionalmente sono inspiegabili. Quindi pur facendo dei progetti sarà Lui ad aiutarmi a portarli avanti o a prendere un’altra strada”.
Che rapporto c’era con Papa Giovanni Paolo II?
“L’ho conosciuto a 12 anni, quando mi sono trasferito in Vaticano per il Giubileo del 2000. L’ho incontrato centinaia di volte. Per me è colui che mi ha trasmesso e confermato la mia vocazione. Uno dei momenti che più mi ha colpito è stato quando lui già non parlava più perché era appena stato operato di tracheotomia. Mi ha guardato con degli occhi talmente vivi e intensi che mi ha detto molto di più di tante parole. Quello sguardo mi ha dato, e ancora oggi mi dà, il coraggio, la forza, di continuare ad andare avanti“.