Mattina con aria frizzantina, si capiva che l’estate era finita. Cielo azzurrissimo. Le note di “September Morn” si diffondevano dalla radio sveglia. Mia moglie era già pronta per essere accompagnata alla stazione per andare al lavoro come milioni di pendolari fanno ogni mattina. Io mi accingevo a mettere due dei miei quattro figli sull’autobus scolastico: andavano insieme. Uno faceva la quinta elementare e uno la seconda. L’autobus passava alla 8 e 50. Lasciando casa per arrivare alla fermata dello schoolbus sentii dalla tv, da uno dei reporter che in elicottero informavano sulle condizioni del traffico nelle ore di punta, che un piccolo aereo da turismo era andato a sbattere contro la torre nord del World Trade Center. “Accipicchia – pensai – come in King Kong”. Lo school bus arrivò, i bambini salirono, i genitori salutarono e cominciò la giornata lavorativa. Tornai a casa canticchiando “September morn, we danced until the night…” pensando che sarei andato in serata a votare con mia moglie dopo il suo rientro a casa perché quell’11 settembre c’erano le primarie democratiche nello Stato di New York.
Chiamai il mio amico Lucio Caputo nel suo ufficio al settantesimo piano del World Trade Center. Quel giorno avevamo un pranzo che lui aveva organizzato per un ospite italiano e mi aveva chiesto di fornirgli un fotografo.
“Ho sentito un gran frastuono sembrava un’esplosione. Il palazzo ha vacillato – mi disse al telefono. – Oggi non me ne va bene una. Sono andato a fare colazione al ristorante situato al 107mo piano (Windows of the World) ma c’era un party privato per gli uffici della Kantor and Fitgerald e non c’era posto così sono tornato nel mio ufficio”. Mentre parlavo con Lucio, erano pochi minuti dopo le 9, vidi in tv il secondo aereo che centrava in pieno la torre Sud. Rimasi a bocca aperta. “Pronto, pronto. Lucio, Sono attentati. Un altro aereo ha colpito la torre sud. Lucio scappa, scappa, scappa”. E Lucio scappò. Fu due volte fortunato. Se fosse rimasto a fare colazione all’ultimo piano non sarebbe più riuscito a scendere. Il primo aereo aveva colpito il 93esimo piano incendiandosi, bloccando con il kerosene in fiamme le scale di sicurezza. Se poi si fosse fermato durante la sua fuga, come gli dicevano i vigili del fuoco e gli agenti che salivano mentre lui saltava i gradini due alla volta per fuggire, il palazzo gli sarebbe franato addosso. La paura lo salvò.
Ma questo le venni a sapere giorni dopo perché subito dopo gli attentati i cellulari andarono in tilt, i ponti furono bloccati dalle auto della polizia, gli aeroporti chiusi come le stazioni dei treni e delle metropolitane. Una morsa di ferro strinse New York e nessuno poteva entrare o uscire dalla città. Inutili i tentativi per cercare di rintracciare mia moglie. Le line dei cellulari non funzionavano mentre le line fisse suonavano ma nessuno rispondeva. Incollato davanti alla tv nel caos generale tra ambulanze ululanti, camion e autobotti del vigili del fuoco a sirene spiegate, poliziotti che correvano da tutte le parti, vidi sfaldarsi i due grattacieli in una nuvola di fumo e polvere. Non sono religioso, ma feci il segno della croce.
Mi chiamò la scuola dove erano andati i figli più piccoli. Volevano sapere se c’era qualcuno in casa se avessero mandato i bambini prima della fine delle classi. In casa, fortunatamente, c’era la fida Monika. Telefonavo ogni 5 minuti a mia moglie ma non riuscivo a passare. Telefonavo alla sua segretaria, ai colleghi, agli amici, ma niente, le line di Manhattan/Brooklyn erano fuori servizio.
Telefonai al giornale dove allora lavoravo la cui redazione era in New Jersey, poco dopo il Washington Bridge, e mi misi in contatto con tutti i redattori che non abitavano a Manhattan per convocarli in redazione, tra cui anche Stefano Vaccara, fondatore della Voce di New York. Mentre stavo per lasciare casa mi telefonò Marcello Ugolini del GR1. Voleva notizie, voleva sapere il numero delle vittime, il nome dell’organizzazione terroristica. Tutte cose che, al momento, non si sapevano. Alla fine mi chiese “Come reagirà secondo te l’America?” Bella domanda, pensai tra me e me. E mi misi in viaggio.
Ci vollero 4 ore per fare 30 miglia. In auto, paralizzato nel traffico caotico arrivò sul mio cellulare la telefonata di mia moglie che, impaurita, non sapeva come tornare a casa poiché tutti i treni erano bloccati. “Rimani nel tuo ufficio – le dissi- ti passo a prendere appena finisco in redazione. Sarà una serata molto lunga, ma aspettami”. E lei mi aspettò fino alle 2 del mattino, ma noi fummo fortunati: tornammo a casa.