Mappa e matita in una mano e calice nell’altra. Quando ci si ferma agli stand, lo si sciacqua con l’acqua, lo si svuota nella sputacchiera e si ricomincia. All’appuntamento autunnale della fiera vinicola organizzata dal critico enologo James Suckling all’Altman a Manhattan, appassionati e buyer si aggirano fra i banchetti, un centinaio in totale, assaggiando bianchi e rossi, bollicine e fermi, uve pregiate e minerali forti. Si fermano a parlare con i produttori, per quanto la musica alta lo permetta molto poco, si scambiano pareri su abbinamenti, produzione e vendita e appuntano tutto sul quadernino.
Phil Gillette è venuto a conoscenza dell’appuntamento di James Suckling attraverso il suo liquor store di fiducia. “Ho iniziato ad appassionarmi ai vini durante il mio primo viaggio in Italia qualche anno fa, ma allora non sapevo nulla e bevevo tutto quello che mi veniva dato senza farmi domande”. Ora, quando può e quando stacca dal lavoro – fa il jazzista da Eataly – si ferma direttamente alla vineria del locale di Flatiron e assaggia questo o quel bicchiere d’annata studiandone la lavorazione e gli abbinamenti.
“Il mio preferito qui alla fiera è uno dei rossi del Chianti, fra i primi che ho assaggiato”, Gillette commenta insieme all’amico Dave Mulewski, che l’ha accompagnato perché “non potevo dire di no”. L’appunto che indica sul quadernino è perlopiù sul sapore, sulla lavorazione e sull’invecchiamento. “Ma ho un debole per l’Amarone”.
Andrea Pernigo, dell’azienda vinicola Ripa della Volta, basata a Verona, è fra gli invitati di Suckling – unico modo per esporre – e ha portato dall’Italia due vini: un Amarone della Valpolicella del 2018 e un Valpolicella Superiore Biologico del 2021. Il primo ha un invecchiamento più lungo: le uve riposano nel fruttaio della cantina di produzione, che si trova a Romagnano, da ottobre a gennaio e poi lasciate a maturare in botti di rovere di Slavonia e in barriques di legno francese per tre anni. Il sapore è rotondo e deciso, più speziato. Il secondo, invece, viene fatto macerare per 10 giorni circa e affinare per 12 mesi in acciaio e 3 mesi in bottiglia. Il sapore è elegante e fruttato. Entrambi si abbinano bene a carni importanti, “quelle che gli americani userebbero per fare il barbecue”, ammette Pernigo.
Anche Cantine di Verona hanno il loro Amarone, ma il loro prodotto di punta della fiera è il Ripasso Superiore. Spiega Samantha Parolotto: “Rispetto a quello normale, ha lo 0,5% in più di alcol ed esce sul mercato un anno dopo. Ed è chiamato Ripasso per le due fermentazioni: la seconda viene fatta sulla vinaccia dell’Amarone, da cui deriva poi l’aroma, evitando un vero e proprio appassimento delle uve”. Il miglior abbinamento è con una carne importante. “Lo stracotto veneto è il massimo, ma anche con i formaggi. Sicuramente lanciarsi sul mercato americano è una grande sfida. Pur essendo saturo, è anche molto dinamico”. Parolotto commenta che gli Stati Uniti sono una grande vetrina a cui ambire, soprattutto da quando la domanda italiana sta cambiando, “diminuendo”. “Il trend del momento in Italia va verso birre e superalcolici. L’America ha una grande offerta di ristoranti Tricolori a cui noi possiamo puntare e i clienti che troviamo qui in fiera sono curiosi e si interessano alla produzione e lavorazione nelle nostre cantine”.
L’unico vino emiliano romagnolo è di Venturini Baldini, una società agricola a Roncolo di Quattro Castella, in provincia di Reggio Emilia. Julia Prestia ha portato due Lambruschi, uno rosato di Sorbara e uno tradizionale rosso di Salamino e Grasparossa. “Appartengono a una nuova generazione – commenta Prestia. – Tornano al sapore originale, più secco, non zuccherato. Questi presentano tutto lo spectrum, i colori, le varietà del Lambrusco.” Entrambi sono molto versatili – è il punto forte di questo vino – e si abbinano con la cucina italiana, ma anche al barbecue americano e alle carni più grasse asiatiche. Il Lambrusco riporta al palato sapori di infanzia: il ragù che cuoce lentamente, la nonna che chiude i ravioli e il nonno che sorseggia due dita di vino rosso mentre gioca a briscola.
L’obiettivo di James Suckling era proprio questo: “C’è così tanto da raccontare sul vino, sulle persone che lo producono, le loro storie, le loro famiglie – ha commentato il critico – che l’unico modo per conoscere è riunire i produttori in un unico posto insieme ai clienti. Ed è questo quello che succede qui”. Da dieci anni organizza questa fiera perché sentiva il bisogno di trasmettere quel “senso di cordialità, calore e appartenenza” che ha ricevuto quando è arrivato per la prima volta in Italia, nel 1983. “Ho viaggiato da Nord a Sud, dal Friuli al Piemonte, dalla Toscana al Lazio, alla Campania, alla Sicilia. E mi sono detto: un giorno vivrai qui e scriverai solo di vini italiani”. Ed eccolo qua, trent’anni dopo.