Il diritto all’oblìo trasformato in arte concettuale, esibito, meditato. Volti dai tratti sfocati, indefiniti, che tradiscono un’unica disperazione, comunque percepibile. C’è una sezione del Whitney Museum of American Art di New York che, online, ci catapulta in un mondo al limite, crudo, su cui vale la pena soffermarsi per una riflessione.
Criminal data è il culmine di un lavoro che Paolo Cirio, hactivist e critico culturale piemontese, ha effettuato negli Stati Uniti. La sua base operativa è stata proprio New York, dove ha vissuto per 12 anni, fino alla pandemia, e in cui conta di tornare. Un video realizzato con migliaia di foto segnaletiche sfocate, e domande in sospeso sugli effetti della distribuzione e della commercializzazione dei casellari giudiziari americani.
“Un lavoro digitale che ho iniziato nel 2016 – mi dice Cirio – Con il video pubblicato in Artnet del Whitney riassumo il fenomeno e il mio progetto, in mostra nei musei di tutto il mondo, con installazioni più ampie, foto stampate in modo professionale ed anche collezionate”. Paolo Cirio non nasconde di avere un animo da attivista.
“Sì, da sempre, in vari ambiti, dalla privacy ai diritti umani su internet, oggi strumento base della società. Dopo essermi occupato di diversi progetti, ho scoperto che negli Stati Uniti esisteva questo fenomeno vastissimo, che coinvolge milioni di americani”. Quale fenomeno? “In America c’è il tasso di carcerazione più alto al mondo, che ha portato alla creazione di un immenso database con tutti gli arresti fatti negli ultimi 20 anni”.

Un database che comprende dati personali e fotografie? “Sì, fondato su due fenomeni culturali americani. Il primo è il bisogno di sicurezza: pubblicando i dati c’è la sensazione (o l’illusione) che chiunque possa rintracciare i criminali. Il secondo è l’ossessione della libera distribuzione di qualsiasi dato”. È sempre stato così? “No, qualcosa sta cambiando dopo gli abusi dell’era Trump, censurato da Twitter, una vera e propria rivoluzione. E sui Criminal date si comincia a riflettere. Molti giornali, media, si stanno finalmente rendendo conto del danno enorme nei confronti di migliaia di persone, spesso arrestate con estrema facilità, a volte per sbaglio, altre per questioni razziali o piccoli crimini risolti a processo”.
Lei parla di commercializzazione di questi dati, in che senso? “Nel 2016 mi sono accorto che questi database pubblici venivano in qualche modo inseriti su siti e riviste americane, che li prendevano gratuitamente e li pubblicavano nelle sezioni arresti su cui poi effettuavano inserzioni pubblicitarie. Ma c’è di più: alcuni chiedevano denaro agli ex detenuti per rimuovere i dati dai propri siti, una sorta di estorsione. In molti hanno pagato dai 400 ai 5 mila dollari per cancellare dalla memoria le foto segnaletiche, ma quegli scatti e i loro dati ricomparivano poi su altri siti analoghi”.
Ci sono state denunce per questo che lei sappia? “Si, e dopo il fenomeno è stato più contenuto, ma purtroppo esiste ancora. E’ una questione molto più complessa, perché dati ben organizzati diventano un bene commerciale anche se non vengono pubblicati: possono, ad esempio, essere venduti ad aziende che fanno background checking per chi assume personale. In America ci sono pochissime leggi sulla privacy”. Quello che Paolo Cirio porta a scoprire, e su cui invita a riflettere con il suo lavoro, è un fenomeno cominciato molto tempo fa. “Venti o 30 anni fa non si pensava che questi dati sarebbero stati rielaborati e che sarebbero diventati un bene commerciale con un impatto così forte”.
Una riflessione importante sui diritti umani che oggi Cirio ha trasferito su un piano differente: “Mi sono sempre occupato di attivismo e di arte, faccio parte di una comunità di persone che cerca di regolamentare l’uso dei dati. La campagna al diritto all’oblìo che abbiamo in Europa l’abbiamo trasferita negli Stati Uniti.” Ma lei, di fatto, è anche un hacker? A ben leggere il suo curriculum parrebbe di sì. “Per questi progetti decisamente sì: per raccogliere questi dati, li ho rubati a chi li ha rubati per primo. Non è piaciuto ai siti, hanno provato a denunciarmi, accusandomi di aver trafugato identità e traffico dati. Ho ricevuto due lettere legali più varie email che minacciavano denunce, mi avevano spaventato, così ho interrotto il mio progetto. Poi ho detto no, vado avanti, questi sono crimini folli”.

Quanto Paolo Cirio sia stato influenzato nella sua arte concettuale da New York è lui stesso a spiegarlo: “Avevo già vissuto tre anni a Londra, ma New York è particolare per la grande comunità di artisti che si incontrano e condividono idee, i migliori college e scuole di arte sono lì. Ho incontrato artisti bravissimi, ci sono stati scambi di idee produttivi, mi sono occupato essenzialmente di questioni legate principalmente alla tecnologia, al capitalismo, a leggi e diritti civili. New York è il posto giusto per operare al meglio in questo settore”.
Per questo ha dovuto lasciare l’Italia a lungo? “Sì, ma andare fuori serve sempre. L’Italia dovrebbe sostenere di più le persone con interessi, curiosità, ma c’è un grosso problema a livello universitario: la difficoltà ad aprirsi, a ringiovanirsi. In Italia non ho nessuna speranza di farmi sostenere per le mie ricerche.
È un Paese che deve svecchiarsi sulla tecnologia”. Di Paolo Cirio parlano riviste di tutto il mondo, dal New York Times al South China Morning Post, dalla BBC a El Paìs. Ha ricevuto numerosi premi internazionali ed ha esposto le sue opere-denuncia in tutto il mondo. Un artista concettuale che esplora i sistemi giuridici, economici e culturali della società dell’informazione e li trasforma in manufatti, foto, video o installazioni.
“Mi interessa come cambia la percezione sociale riguardo a giustizia e giudizio su Internet – spiega Cirio sul portale del Whitney Museum – ma non si tratta di censurare o eliminare informazioni, bensì di rimuoverle da piattaforme private con interessi economici. L’estensione della frontiera di un diritto globale alla rimozione delle informazioni personali sensibili riguarda una profonda riflessione sui diritti umani su internet, che implica impegno civico e un processo democratico per un cambiamento significativo”.