Sabato. Una sera con amici. Si prende a Manhattan la metropolitana, si sale sulla linea Q diretta a Coney Island, e si scende poco prima dell’ultima fermata, a Brighton Beach.
Lì, sulle rive dell’Oceano, ai confini tra terra e mare, dove il vento sembra dirci che siamo arrivati ai confini del mondo, c’è Tatiana, il ristorante russo più famoso di Brooklyn.
Chiedete indicazioni ai passanti. Vi rispondono donne coi capelli stretti da un fazzoletto annodato sotto il mento, come negli anni Sessanta usava nelle nostre campagne (o, se si aveva un carré Hermes, per salire in Vespa). Hanno un accento e un timbro immediatamente riconoscibile, con quei tratti cupi ma melodiosi che hanno ispirato una straordinaria tradizione musicale, e che risuonano perfino sotto le dita dei grandi pianisti slavi (a partire da Rachmaninoff).
E camminando per raggiungere il ristorante, passate tra case non di legno o di stucco, ma di mattoni, con piccole colonne tortili che basterebbe colorare a tinte vivaci per pensare di aver sbagliato non solo città ma continente.
Si sbuca sul mare e lì c’è la lunga vetrata di Tatiana che sicuramente d’estate è una meraviglia. Ma per il momento, dopo una foto sulla larga passeggiata di legno, ci infiliamo all’interno e assaporiamo il tepore non solo della temperatura, ma dell’arredamento, delle persone, delle tavole.
È il trionfo dell’opulenza slava. Grandi alzate a centro tavola, dove i piatti di portata restano sospesi uno sopra l’altro, colmi di ogni ben di dio. Bottiglie (di Vodka soprattutto), poste un po’ dappertutto, perché non si sa mai che la vodka possa finire. E persone bellissime. Donne sfavillanti, perché Tatiana è il luogo dove si viene non solo per mangiare, ma per celebrare un evento, per festeggiare un compleanno.

Arriva il menu, grande come si usava nell’Europa di fine Ottocento, e vi pare di essere a bordo dell’Orient express. Quasi tutti nel nostro tavolo prendiamo il Pollo alla Kiev. Siamo arrivati qui ridendo, tra amici, ma con il peso di questi giorni terribili nel cuore. Abbiamo voglia in qualche modo di essere là dove qualcosa di incomprensibile sta accadendo, fosse solo con una ricetta.
Ci rendiamo subito conto che, oltre al Pollo alla Kiev, il menu offre una rassegna di piatti slavi straordinaria dove i paesi si mescolano, e l’Ucraina si trova vicina alla Russia, sicché ai tavoli arriva tutta assieme un’Europa che – in Europa – si sta lacerando.
La prima cosa che mi incuriosisce è proprio questa mescolanza, questo “panslavismo” declinato in forma gastronomica, ma capace di farci intuire dall’interno il dramma atroce di una guerra in cui torna l’archetipo di Caino e Abele, Romolo e Remo: quando non sono due nemici, ma due fratelli a fronteggiarsi.
E dal tavolo vicino – dove una signora magnifica, vestita di verde brillante come i gioielli che porta al collo, festeggia il suo compleanno – vengono le risate e i brindisi in una lingua slava che non so bene quale sia.
Poi. improvvisamente, si apre il palcoscenico. La seconda canzone è cantata in italiano – una celebre cover di Bocelli – è un po’ ci commuoviamo. Un’altra cover è “Adagio” di Lara Fabian, tratta dall’Adagio di Albinoni. E dopo le canzoni, a sorpresa, le danze. Sembra di essere tornati al “Ballet russe” che infiammava le platee dell’Europa di inizio Novecento. Le ballerine hanno una bellezza delicata e fine che ricorda le dive del cinema muto, e sono vestite con quel gusto slavo dove è ancora chiarissimo l’influsso bizantino, nelle aureole dorate, nei ricami ricchissimi, nella capacità di passare dalla sfrenatezza all’iconico simbolismo dei gesti.
Ma chi sono quei ballerini? Russi? Ucraini? Come hanno la forza di ballare e intrattenere il pubblico, e incarnare il lato gioioso dello spirito slavo, quasi che nulla stesse accadendo lì fuori?
Mi alzo, e trovo un cameriere-manager. Gli chiedo. “Ma questo locale è russo, solo russo, o si mescolano diverse etnie slave?”.
“I proprietari”, mi risponde “sono di Odessa, ma il locale è russo, è il più famoso ristorante russo di Brooklyn”.
“Ma nel menu non ci sono ricette solo russe. Noi, per esempio, abbiamo mangiato il Pollo alla Kiev.
“Perché la Russia è molto più grande della Russia soltanto. Anche se parliamo lingue diverse, anche se siamo nazioni diverse, noi siamo un solo popolo”.
Lo guardo. Prendo il coraggio a due mani e gli chiedo:
“Allora lei è d’accordo con Putin, e con l’aspirazione a ricostituire attorno alla Russia l’unità dei popoli slavi, per esempio invadendo l’Ucraina”.
Scuole la testa. “Io sono ucraino”, dice. “Quello che i Russi stanno facendo ha scavato un abisso tra di noi, che forse neppure cento anni basteranno a colmare”
Ecco, in un momento mi sono apparsi due presenti diversi. Il presente di una fratellanza fortissima, quasi un’identità, e la lacerazione di una fratellanza spezzata. Assieme. Nella stessa persona. Nello stesso discorso.
“Ma i ballerini”, chiedo, “e il personale?” E lascio la domanda in sospeso.
“Come nel menu, ci sono russi e ci sono ucraini”.
“E anche nei clienti”.
“Anche nei clienti. I proprietari hanno cervello (brain dice), e tengono unito quello che in Europa si divide”.

Andate da Tatiana. È un luogo – alla fine – di speranza. Se l’Europa brucia se stessa, forse non è per sempre, forse non è dovunque. Forse c’è un’Europa in esilio, al di fuori dei suoi confini, in cui Russi e Ucraini continuano a danzare assieme, e sul palcoscenico come sulla tavola i doni che la terra, la cultura (forse Dio) ci hanno dati, vendono condivisi, non bruciati e distrutti.
Venite da Tatiana. Capirete anche perché in fondo l’America continua ad essere un grande paese. Troviamo spesso qui, negli USA, il meglio di quello che a casa nostra non facciamo che distruggere.
Venite da Tatiana, e quando uscite guardate il mare e il cielo.
Sgombri.
C’è solo il suono delle onde.
Non siamo egoisti a godere questo momento di felicità, ma saggi, perché il delirio del potere ci abbandona. Lo lasciamo cadere e il vento rapinoso di Brooklyn se lo porta via.
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