Dove meno te lo aspetti, New York è in grado di sorprenderti. Così capita che a Times Square, passeggiando una domenica mattina, dalle porte di un palazzo esca musica gospel. Avvicinandosi diventa leggibile la scritta “Times Square Church”, ma l’edificio ha tutto tranne che le sembianze di una chiesa.
Al 237 West della 51st Street sorge infatti un teatro costruito nel 1930 dalla Warner Bros come palazzo del cinema, il Warner Hollywood Theatre, successivamente convertito in un luogo di Broadway dal nome Mark Hellinger Theatre.
Verso la fine degli anni ’80, però, David Wilkerson, un predicatore evangelista venuto a mancare nel 2011, ci mette sopra gli occhi. Vuole dare un impulso nuovo a un quartiere che, in quel periodo, è conosciuto come il centro di film a luci rosse, strip club, prostituzione e tossicodipendenza. Acquista la proprietà e ci si stabilisce: nasce così la Chiesa di Times Square.

Donald W. Wilkerson, fratello di David e uno dei dirigenti della struttura, sin dall’inizio promette che “il teatro è e rimarrà lo stesso”. E in effetti mantiene la parola.
È lontano da Harlem, il quartiere gospel per eccellenza e la cerimonia è diversa da quella che tutti si aspettano. Non c’è solo l’anima black che scalda i cuori dei fedeli, ma un melting pot di tutte le etnie, in pieno stile New York.
Sul palco una band suona le canzoni di rito e più in alto, dietro a tutti, un coro variegato compone le basi vocali sulle quali si creano le melodie che tutti cantano. Durante le omelie, il pubblico partecipa, risponde e si scalda.
“Alleluja!”, urla il pastore al termine di un discorso sulle disuguaglianze che si notano in città. I presenti sono in piedi, applaudono, tendono le mani verso l’alto e seguono con trasporto le parole della loro guida, che li incoraggia a resistere e a lasciarsi trasportare dall’amore di Dio.

Poi, un momento di preghiera collettiva, dove tutti i pensieri si raccolgono e, accompagnati da una delicata base musicale, vengono alla luce i discorsi più profondi. Hanno tutti lo sguardo rivolto verso il basso, ognuno rinchiuso per qualche minuto nell’intimità dei proprio pensieri.
Ma poco dopo è ancora il momento della musica e lì tutto si scatena. In platea i presenti si alzano e iniziano a ballare, cantare e battere le mani. “I serve the Lord”, recita il ritornello di uno tra i brani più apprezzati. Uomini e donne rivolgono le loro voci al cielo mentre si guardano a vicenda.
Non è una chiesa, non è Harlem e non è niente di ciò che si è abituati a vedere nei film. È però una comunità che esiste e che coinvolge chiunque, passando da Times Square, voglia investire un’ora del suo tempo in un’esperienza difficile da replicare.

Con un’ode a Gesù la cerimonia si conclude. Di nuovo tutti in piedi per seguire il ritmo. La frenesia dell’inizio ha ceduto spazio a note più lente, ma non per questo la sala ha perso il suo entusiasmo.
Lasciando il teatro, il personale rivolge a tutti un invito a tornare la domenica successiva. “God bless you”, dicono con il sorriso.
Sono gli ultimi istanti di spirito gospel prima di tornare alla normalità. Una volta usciti dalla porta principale, sono di nuovo le luci dei cartelloni pubblicitari a prendersi il ruolo di protagonisti. Decisamente meno Harlem, decisamente più Manhattan.
Non è forse questo che tutti si aspettano da Times Square?