
Ho lasciato New York il 23 febbraio del 2020. La pandemia era appena cominciata, anche se ancora non ce n’eravamo resi conto. Dopo aver trascorso tre mesi qui, ero certo che sarei ritornato a breve, che il 2020 sarebbe stato l’anno in cui sarei riuscito finalmente ad aggiungere altri e decisivi mattoni per costruire la mia nuova vita newyorkese. Ripensandoci ora, mi sembra di rigirarmi tra le mani dei ricordi scritti in una lingua sconosciuta, che attivano in me sensazioni vaghe, complicate da decifrare.
In questi due anni di pandemia la mia vita ha subìto un brusco cambio di rotta. Il Covid-19 colpisce spesso senza farsi vedere e anche molte delle cicatrici che lascia sono invisibili. Magari le conosciamo soltanto noi, ci sembrano persino sciocche in confronto a tante altre, così non ci teniamo a metterle in mostra. Eppure prudono con puntualità. La mia personale cicatrice ha avuto la forma della linea rossa della metropolitana che prendevo ogni giorno per spostarmi da Brooklyn a Manhattan, quella dei tanti percorsi fatti a piedi per riempirmi gli occhi, il naso e le orecchie del posto in cui mi sentivo finalmente a casa. Nei tanti mesi trascorsi lontano, non ho fatto altro che osservare questa cicatrice tenendomi aggrappato ai ricordi e alla speranza, certo che presto sarei potuto ritornare e avrei potuto ricominciare a vivere New York dal punto in cui mi ero fermato, come fosse un libro lasciato a metà.

Passato attraverso la frustrazione, lo scoramento, la rabbia e il senso di ingiustizia, alla fine sono tornato. Sono arrivato attraverso il Path, la linea che collega il New Jersey con Lower Manhattan. Sceso al Worl Trade Center, ho camminato per le strade dell’antica New Amsterdam accolto dalla solita atmosfera non curante di New York. Certe cose non cambiano, mi sono detto. Sono andato verso il South Street Seaport, il vecchio mercato del pesce ora trasformato in scenografia post-industriale adatta per il brunch. Affacciandomi sull’East River, ho guardato e fotografato il Ponte di Brooklyn, cominciando a sentire un’inquietudine che ho tentato di allontanare continuando a passeggiare, come facevo prima. Così da Fulton Street sono andato in direzione nord, osservando le insegne cambiare rapidamente lingua finché Chinatown non mi è cresciuta attorno, con i suoi colori e la sua folla, i suoi odori e i suoi rumori. Ricordare ancora le strade mi ha rincuorato e anche un po’ galvanizzato, allora via verso Canal Street, schivando i tratti troppo affollati, le bancarelle, le offerte di borse e orologi, continuando su Mulberry Street, Little Italy, Lafayette dritto fino a Houston Street, lasciando l’East Side alla volta della parte ovest di Manhattan, in direzione dell’adorato Washington Square Park. Proprio qui, però, le mie ingenue auto-rassicurazioni si sono scontrate ruvidamente con la realtà.

Se risalendo Manhattan mi ero illuso che la città avesse mantenuto intatta o solamente un po’ ammaccata la sua anima distintiva, qui nel parco ho visto da vicino le ferite e il trauma somiglianti agli squarci e ai detriti che restano dopo un uragano o un terremoto. Ho trovato una folla che sembrava esibire una forzata spensieratezza. La musica del pianista vicino all’arco, solitamente così udibile, si perdeva in un frastuono dove confluivano toni di voce troppo alti, urla sconnesse. A inizio Ottocento questa zona venne utilizzata come fossa comune a causa dell’epidemia di febbre gialla che colpì la città. Sotto Washington Square Park riposano ventimila persone, ma nei tanti giorni che trascorrevo qui ero solito dimenticarmene, o comunque vedevo la vitalità della superficie agitarsi in modo rispettoso nei confronti della morte sotto di noi. Tornandoci adesso, invece, ho sentito distintamente la sofferenza sopra e sotto la terra.

Per due anni ho ascoltato a distanza e con speranza lo slogan New York is back, ma la città non sembra tornata. La New York di prima esiste solo nei ricordi e quella che c’è oggi si confronta con le proprie ferite: curandole a fatica, negandole, stuzzicandole. Di questa città mi sono innamorato subito proprio per la sua capacità di accoglierti senza badare a te, per il suo severo, ma unico modo di dirmi benvenuto. Ora mi sono sentito per la prima volta estraneo, quasi rigettato. Attorno a me avevo una città ancora immersa nella propria sofferenza, alle prese con traumi simili ai miei, ma chiaramente non miei. Anche nel dolore, New York mi ha mostrato la sua unicità che però in questo momento mi è parsa quasi esclusiva, del tipo: tu non puoi capire, perché non eri qui.
Anziché scendere di nuovo al World Trade Center sono salito fino a Penn Station, con i piedi doloranti, come se dovessi scontare una penitenza. Anche la consueta frenesia della stazione aveva un che di allarmato e allarmante. Nel vociare della folla diretta verso i treni percepivo un’ostinata e ostentata eccitazione che però mal celava l’agitazione. Ho lasciato New York con un sollievo che mai avrei immaginato nei due anni trascorsi ad aspettare il giorno in cui sarei potuto tornare. Sul treno diretto in New Jersey, ho mandato giù l’amarezza e mi sono detto che ha poco senso forzare e deformare l’immagine odierna di New York per farla aderire a quella di un ricordo. New York è cambiata, ma non è proprio la sua costante disposizione al cambiamento una delle caratteristiche che me l’hanno sempre fatta amare? Qui il prima esiste solo per chi si ostina a volerlo cercare e sceglie di distrarsi dal presente, immergendosi in una nostalgia consolatoria che serve solo a stordire. Tornare a New York è stato difficile, mi dico, ma pensare di non tornare lo è senz’altro ancora di più.