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Quando giovedì 30 aprile Giovanni ha ricevuto comunicazione del licenziamento, era trascorso appena un mese e mezzo dall’ordine esecutivo che ha messo “in pausa” lo stato di New York e imposto la chiusura delle attività non essenziali.
“Ero preparato alla notizia”, mi racconta, nonostante dall’entrata in vigore delle restrizioni lo scorso 22 marzo, la sua società abbia cercato in tutti i modi di salvare il personale. “I dirigenti di livello più alto si sono ridotti lo stipendio, ma tre settimane fa sono partiti i tagli e da quel momento ognuno di noi ha iniziato a temere”.
Solo qualche giorno prima Giovanni aveva festeggiato un anno dall’assunzione come rappresentante di commercio nella distribuzione alimentare, uno dei settori più colpiti dagli effetti della pandemia di SARS-CoV-2, il coronavirus responsabile del COVID-19 che negli Stati Uniti ha provocato finora più di 60mila morti.
Nel tentativo di contenere il contagio che avrebbe messo in ginocchio lo stato di lì a poco, a partire dal 16 marzo il governatore di New York Andrew Cuomo ha permesso a bar e ristoranti di rimanere aperti solo per asporto e consegne a domicilio.
“In queste condizioni è praticamente impossibile aprire nuovi account. Finché non torneremo alla normalità, i miei ex colleghi sono a rischio”, sostiene Giovanni rassegnato.
Ne sanno qualcosa Vittoria e Pasquale, pugliesi di 28 e 37 anni e proprietari dal 2018 di Panzerotti Bites a Carroll Gardens, Brooklyn. “Da metà marzo abbiamo notato una diminuzione dell’80% nei pickup e nei delivery e in generale meno clientela e più diffidenza nei contatti”.
Allarmati dalle notizie in arrivo dagli altri Paesi, a New York i residenti sono corsi ai ripari per fare scorte di generi alimentari ovunque, persino in bar e ristoranti. Vittoria mi dice che le loro farine, olio extra vergine d’oliva, lievito fresco, biscotti, taralli, panzerotti da congelare e kit per l’impasto sono andati a ruba in pochi giorni.

Nonostante l’incremento delle vendite di questi prodotti, alla fine di marzo Panzerotti Bites ha fatto i conti con la realtà e ha abbassato la saracinesca fino a maggio, visto che le entrate non bastavano nemmeno a coprire le spese e non giustificavano il rischio per la salute dei dipendenti.
Come Vittoria e Pasquale, anche Rosario Procino della pizzeria Ribalta nel Greenwich Village di Manhattan ha osservato il crollo improvviso delle prenotazioni.
Uno dei proprietari dello storico locale sede del Napoli Club NYC, Rosario ha raccontato a La Voce di New York che nei due-tre giorni precedenti al “New York State on PAUSE”, la solitamente frequentatissima sala si è completamente svuotata.
“All’annuncio del lockdown abbiamo deciso di restare operativi per tre ragioni. Innanzitutto pensavamo fosse giusto dare continuità al servizio per il quartiere e per i nostri affezionati. Sembra uno scherzo, ma in America siamo considerati essenziali al pari dei supermercati perché non tutti sanno cucinare. Da subito inoltre ci siamo organizzati per portare da mangiare a ospedali, medici, infermieri, forze dell’ordine e primi soccorritori”.
Ma il motivo principale riguarda quella che Rosario definisce “una scelta di responsabilità nei confronti dei nostri ragazzi”. Tanti di loro hanno infatti chiesto di lavorare, non avendo i requisiti per aiuti federali o statali.
Molti invece hanno preferito fare ritorno in Italia, come ci spiega Bilena Settepani, manager dell’omonimo ristorante di famiglia ad Harlem, che ha chiuso i battenti temporaneamente per il forte calo negli ordini e per la tutela del personale. “Alcuni dei nostri impiegati si sono ricongiunti con le loro famiglie in Europa e chi è rimasto a New York ha avuto paura di prendere i mezzi pubblici”, mi scrive Bilena, precisando che Settepani riprenderà presto l’attività e collaborerà con l’associazione Harlem Grown per fornire pasti caldi ai poveri della comunità.

Pure chi come Ribalta è riuscito a tenere accesi i fornelli soffre le conseguenze economiche devastanti della pandemia. “Sono aumentati gli ordini per asporto e delivery, ma di una quantità irrisoria rispetto al totale delle operazioni prima della crisi”, ammette Rosario. “Ad oggi sosteniamo giusto i costi delle paghe”.

Giorgia è una ballerina professionista, un’insegnante e una coreografa. Ha 26 anni e da otto vive negli Stati Uniti, dove ha ottenuto un visto O-1 per abilità straordinarie. Da freelance nel campo della danza, dal 16 marzo le hanno cancellato performance, specializzazioni e classi. Da allora non riceve retribuzione, ma come immigrata temporanea non ha diritto alla disoccupazione. “La mia categoria ha subito grandi perdite e non è stata affatto protetta”, si sfoga. “Alcune no profit hanno raccolto fondi con donazioni di privati e sponsor da destinare agli artisti, ma le mie domande sono state sempre rigettate a causa delle numerose richieste pervenute”.
E se bar e ristoranti procedono a singhiozzo senza i commensali ai tavoli, lo spettacolo è totalmente paralizzato in assenza del pubblico. Preparata al peggio, Giorgia si sta adoperando per insegnare ed esibirsi online. Con un messaggio vocale su Whatsapp si congeda esprimendo la sua rabbia: “Sono molto frustrata per la mancanza di supporto del governo federale. Con un visto da artista pago le tasse ma non posso avere il sussidio”.
Oltre all’assegno di 1200$ per i contribuenti con un reddito inferiore a 75 000$ annui (150 000$ per nucleo familiare), la manovra di quasi 2mila miliardi approvata dal Congresso ha creato il Paycheck Protection Program (PPP), un programma di prestiti a fondo perduto per le piccole imprese con meno di cinquecento dipendenti.
Né Ribalta né Panzerotti Bites sono riusciti ad accedere alla prima tranche di sovvenzioni, che nell’incredulità generale sono finiti persino nelle tasche di grandi compagnie.
Ne è un esempio la famosa catena di fast food e burger Shake Shack, il cui chef e fondatore Danny Meyer è stato costretto a restituire i dieci milioni di dollari erogati dal PPP dopo che l’assegnazione ha scatenato proteste in tutto il Paese. (In due giorni di soli asporto e delivery, i venti ristoranti del suo Union Square Hospitality Group hanno dato il benservito a duemila dipendenti).
“Il PPP sarebbe stata un’ottima idea se la città fosse ritornata alla normalità a Pasqua come sperava il Presidente”, chiarisce Rosario. Almeno il 75% della somme erogate avrebbe dovuto essere utilizzata per stipendi ed eventuali riassunzioni, ma “allo scadere delle otto settimane di copertura previste dalla legge, saremo ancora chiusi e dovremmo licenziare di nuovo”.
Il ruolo delle banche nel vaglio dei candidati è stato oggetto di critiche da più parti. Mentre Rosario si è scontrato con lo strano requisito dell’indicare personal guarantees (“garanzie personali”), Vittoria e Pasquale sono stati rifiutati perché non sono cittadini americani o residenti permanenti.
“Ci siamo sentiti rassicurati dall’azione di Camera e Senato per le piccole imprese, ma siamo profondamente delusi dal comportamento della Wells Fargo, che ci ha esclusi perché in possesso di un visto E-2 per investitori”.
Ricalcando l’ingiustizia descritta da Giorgia, Vittoria e Pasquale accusano le procedure discriminatorie nei confronti degli immigrati: “Da proprietari stranieri abbiamo gli stessi obblighi degli americani, ma non gli stessi diritti e non potremo mai ottenere la green card [il permesso di soggiorno per residenza permanente negli Stati Uniti]”.
Sia Ribalta sia Panzerotti Bites sono in attesa di risposte con le dita incrociate e auspicano interventi per abbattere gli esorbitanti costi di affitto.
Al di fuori del mondo della ristorazione, Linda, 35 anni, titolare di una corporation che offre servizi di insegnamento, traduzione e interpretariato, è stata scoraggiata dalla complessità delle procedure burocratiche e farà richiesta di prestito solo se strettamente necessario.
Nel frattempo, “do lezioni online dal 10 marzo. A prescindere dagli ordini di Cuomo, tanti hanno scelto di non frequentare di persona, soprattutto chi è impegnato in ambito medico”.
Linda ha rinunciato a fare da interprete in ospedale per questioni di sicurezza e per molto non potrà contare sulle entrate di eventi e conferenze, ma si considera fortunata perché anche se la scuole non riapriranno a settembre, la tecnologia potrà sopperire al bisogno di mantenere le distanze.

La didattica si è trasferita sullo schermo di un computer pure per Stefano, 55 anni, professore universitario alle prese con studenti malati (ben 5 su 105 hanno contratto il virus), a lutto per la perdita di un familiare, in condizioni disagiate o costretti ancora a lavorare.
“Avevo gestito corsi online in passato, durante l’estate con massimo trenta persone. Ora è molto più stancante e stressante, però mi rendo conto che devo portare a termine il semestre, rassicurare gli alunni, confortarli”.
“Prima ero in classe o disponibile nell’orario di ricevimento. Adesso mi sembra di essere sempre reperibile perché ricevo e-mail a qualsiasi ora”.
Sulla possibilità di tornare in cattedra in autunno, Stefano non azzarda una previsione: “Forse ci sarà un mix tra digitale e campus”.
Tra gli intervistati che hanno spostato l’ufficio nel soggiorno della propria abitazione, Michela trascorre la quarantena tra videochiamate e meeting virtuali. Lo scorso 13 marzo la sua azienda ha offerto l’opportunità di telelavoro su base volontaria e tutti i dipendenti hanno aderito all’iniziativa: lei è occupata per lo stesso numero di ore durante la giornata, ma risparmia il tempo del viaggio in metropolitana.
Quando possibile, agenzie e imprese hanno anticipato le autorità nel limitare gli spostamenti e imporre l’isolamento. È il caso di Diego, 44 anni, che dalla fine di febbraio si è alternato in turni di 2-3 impiegati per 1-2 volte alla settimana nella sua agenzia no profit internazionale, e di Chiara, 29 anni, consulente per lo sviluppo delle aziende italiane sul mercato americano.

“Sul piano dello smart working non ci sono grossi cambiamenti perché i nostri clienti sono in Italia”, mi spiega. “Le attività di vendita e gli incontri però sono sospesi, quindi i compiti effettivi sono diminuiti”.
Pur impegnata da casa nella scrittura, nella revisione e nella correzione di report e articoli scientifici, Anna, scienziata in una grande istituzione culturale di New York, ha saputo che la ristrutturazione finanziaria comporterà inevitabili modifiche all’organico.
Sebbene il presidente, il direttore e undici membri dello staff si siano ridotti lo stipendio del 20% e del 10%, nelle ultime due settimane 81 colleghi di altri dipartimenti sono stati licenziati, non essendo in grado di svolgere le loro mansioni da remoto.
Nel campo della manifattura non essenziale, dal 16 marzo Francesca è stata furloughed, un termine che nell’ordinamento americano indica una sorta di aspettativa imposta e non retribuita, con la promessa (non l’obbligo) di riassunzione. Al lavoratore continua a essere pagata la copertura sanitaria ma non lo stipendio, che viene sostituito dalla disoccupazione.
“Ho ricevuto il primo deposito il 21 marzo, meno di sette giorni dopo il furlough. Sono andata sul sito del Dipartimento del Lavoro e ho perso quasi quarantotto ore per la richiesta, perché la pagina era bloccata da milioni di accessi contemporanei. Ho dovuto indicare il motivo dell’interruzione del contratto, se il coronavirus era la causa, descrivere il mio ruolo, e via dicendo. Sono stati molto veloci, dal mercoledì alla domenica. Il mio file resterà attivo per un anno e ogni settimana dovrò chiamare per rinnovare il sussidio, in teoria fino a dicembre che ne avrò diritto”.
Da immigrata, Francesca mi spiega di aver dovuto allegare documentazione aggiuntiva, ma ritiene che al di là degli intoppi iniziali il procedimento sia stato molto efficiente. La sua e quella di Giovanni sono due di oltre trenta milioni di domande di disoccupazione presentate negli Stati Uniti in appena sei settimane.
Oggi Francesca mi confida le sue paure e incertezze sul futuro, sulla ricerca di una nuova occupazione e sui rischi di una riapertura affrettata con il virus ancora in circolazione.

C’è chi non si abbatte e conserva speranza e autoironia. Nonostante il licenziamento, Giovanni è pronto a reagire ed esplorare alternative professionali, magari nell’insegnamento, una sua vecchia passione.
E se Michela, Chiara, Anna, Linda e Stefano hanno tutti nostalgia del contatto umano e degli scambi con colleghi, alunni e clienti, Diego scherza: “Dell’ufficio mi mancano la macchinetta del caffè e i miei libri”.