“Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case…”: parole che sanno di vite perse, di emorragia di umanità, ma anche di monito, testimonianza e riscatto. Sono trascorsi 100 anni dalla nascita di Primo Levi, colui che, queste parole, le ha trovate nell’abisso, le ha fatte affiorare con coraggio e le ha affidate alla cura, purtroppo non sempre all’altezza, delle generazioni presenti e future, per assicurarsi che quel passato di orrore e ingiustizia non fosse consegnato all’ineffabilità e all’indimenticanza. Quelle pagine dolorose sono state ripercorse integralmente dai 46 lettori che, il 12 giugno, si sono avvicendati alla Public Library di New York nel rileggere Se questo è un uomo in 25 lingue diverse, le principali in cui è stato tradotta quella che è diventata una pietra miliare di letteratura e memoria. Un evento fortemente voluto dal direttore dell’Istituto Italiano di Cultura Giorgio Van Straten, dal Centro Primo Levi di New York e dalla stessa Public Library, per celebrare la vita di un grande scrittore e intellettuale italiano, che sperimentò sulla propria pelle gli effetti inumani dell’eccidio nazista e contribuì a diffonderne testimonianza.

Il suo fu un capolavoro tormentato anche dal punto di vista editoriale, perché, inizialmente, faticò a trovare un editore disposto a pubblicarlo. Se questo è un uomo incontrò infatti il rifiuto di importanti case editrici, tra cui Einaudi, con Natalia Ginzburg e Cesare Pavese preoccupati che fosse prematuro dare alle stampe la memoria così vivida di un orrore che ancora ribolliva nelle viscere dell’umanità. Certo: nella prefazione, Levi specificava che “questo mio libro, in fatto di particolari atroci, non aggiunge nulla a quanto è ormai noto ai lettori di tutto il mondo sull’inquietante argomento dei campi di distruzione”; eppure, a soli due anni di distanza dalla fine dell’inferno, per alcuni quella “distruzione” era ancora un argomento intollerabile per vederlo stampato nero su bianco. Fu quindi la piccola casa editrice De Silva di Franco Antonicelli a pubblicare inzialmente 2500 copie del libro, che si guadagnò recensioni autorevoli, tra cui quella di un entusiasta Italo Calvino. Era il 1947: la nuova edizione stampata da Einaudi sarebbe uscita più di 10 anni dopo, nel 1958.
D’altronde, Levi non si arrese mai alla sentenza di Adorno, secondo cui scrivere una poesia dopo Auschwitz, l’orrore indicibile per eccellenza, fosse opera da barbari. Al contrario, il chimico-autore sopravvissuto era convinto che non ci fosse alternativa alla memoria e alla testimonianza, perché, affermava, “Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi. La peste si è spenta, ma l’infezione serpeggia”. Primo Levi era anzi convinto che, da quella pagina della storia dell’umanità, non dovessimo mai togliere “il segnalibro della memoria”. Certo: resistevano gli ostacoli legati all’adeguamento dei modelli letterari tradizionali alla necessità di riferire l’orrore e di trasformarlo in parola. Ma nessuno di quegli ostacoli, per quanto enormi, lo fece mai desistere dall’esercizio della testimonianza.

Ed è stato proprio questo lo spirito che ha mosso gli organizzatori di questo evento a organizzare una lettura collettiva, quasi una staffetta letteraria che importanti esponenti di tante comunità culturali, in una città per eccellenza multiculturale e nel tempio per antonomasia dei saperi, si sono passati di ora in ora, da mezzogiorno fino alle 8 di sera. A cominciare da Stella Levi, sopravvissuta ad Auschwitz e membro del board del Centro Primo Levi, visibilmente emozionata nel rivivere un passato incancellabile attraverso le parole dell’autore di Se questo è un uomo. Dopo di lei, si sono succeduti tanti altri lettori, da Jonathan Galassi, editore, poeta e traduttore di Eugenio Montale e Giacomo Leopardi, oltre che di Primo Levi, a John Turturro, attore e regista i cui lavori si sono aggiudicati premi internazionali tra cui gli Emmy awards; da Roger Cohen, editorialista del “New York Times”, allo stesso Van Straten.

“Per me è veramente un sogno che si realizza”, ci ha detto il direttore dell’Istituto Italiano di Cultura, “perché l’idea di una lettura integrale di Se questo è un uomo è da tanto tempo dentro di me”. Un’occasione “emozionante come io mi aspettavo che fosse, queste lingue diverse che si alternano, e che tutte restituiscono la forza incredibile di questo libro è veramente un’esperienza indimenticabile”. Una testimonianza che, secondo Van Straten, “ci riguarda oggi, che parla del nostro presente, della necessità di non considerare l’altro un nemico, che è la base dell’analisi di Primo Levi”. Un’analisi vivificata dalla rilettura di quelle parole “in così tante lingue diverse”. Una lettura collettiva, insomma, che supera differenze, pregiudizi, barriere linguistiche e culturali: quale miglior modo per tenere fermo lì, in mezzo a quelle pagine di storia ancora oggi così attuali, il segnalibro della memoria?