Cara New York, ormai è chiaro, credo. Tu, per me, non sei solo la città adorata, il luogo della liberazione, l’impasto di popoli e di idiomi, tu per me sei un simbolo. Sei uno stato della mente. In che modo? Nel modo in cui ti fai percorrere idealmente anche quando sei lontana, nel modo in cui si può tendere a te, pensare a te, come luogo che libera, che apre al mondo.
Ho detto più volte, in modo forse non sempre esplicito, quanto sia importante per capirti, e per capire la realtà più tangibile (dunque per capire il tuo spirito tour court) percorrerti in solitaria. E ho detto più volte che camminando tra le tue strade e i tuoi quartieri si fanno mille viaggi: da downtown a uptown, da Coney Island a Brighton Beach, dall’isoletta a nord del Bronx, City Island, al Bronx delle genti italiche e latine. Così, insisto. I mille viaggi son davvero mille se si ha la voglia della vera scoperta, e questa avviene se ci si rapporta all’altro, faccia a faccia, individuo con individuo. Ecco perché insisto che liberazione e percorso della conoscenza necessitano uno stato di individualità, di movimento in solitaria, che è altra cosa dalla solitudine.
Movimento in solitaria è predisposizione, ed è ancora sorriso a chi ha il colore della pelle diverso dal tuo, a chi si esprime in una lingua che non è né l’italiano, né l’inglese. Movimento in solitaria è rispondere a un complimento senza paura e, da lì, partire con una conversazione, un nuovo confronto, magari un invito a bere o l’esortazione a entrare in una chiesa piena di cantori e jazzisti. È in questo modo che mi sono trovata nella piccola chiesa di St Mark, tempio in cui la messa si celebra in inglese, in spagnolo e in francese. Ci sono andata, ho accettato l’invito, e non certo per motivi di culto. Ho accettato perché il movimento in solitaria mi ha offerto la condizione per rendere facile il cambio di direzione, l’andare senza un programma preciso. Il movimento in solitaria è ancora la possibilità di avvicinarsi all’altro, senza l’intromissione di colui o colei che ti ricorda la solita vita.

Così come facevo da te, non organizzo sabati e domeniche necessariamente in compagnia. Anzi, dopo lo stare insieme forzato del lunedì, del martedì e di tutti gli altri giorni feriali, il fine settimana è il momento giusto per proteggersi dall’invasione delle sovrastrutture, quella violenza che viene spesso imposta dagli altri, quegli altri che non possono fare a meno di incontrare i soliti amici in pizzeria o al cinema il sabato sera. Così, ricordo quel pranzo tra me e me in quel self service ad Harlem, in Adam Clayton Powell avenue, dove si mangia soul food, cibo per l’anima, ingredienti freddi e caldi, piatti che mettono assieme la tradizione africana con quella europea e, naturalmente, con quella più consumistica dell’America dei fast food.
Adesso, New York del mio cuore, tu continui a darmi questo. Mi rammenti di non perdere questo stato della mente; io e te, io e l’apertura, io e gli altri, io e la bellezza che, in ogni dove, e non solo in prossimità delle tue vie, mi ritrovo di fronte ma che a volte non so vedere.