Nella decennale rivisitazione, da quel lontano 2007, ogni volta la Big Apple mi ha sorpreso per la sua fulminea e inarrestabile metamorfosi. Cominciai con la contemplazione del Ground Zero dalla piazzetta di fronte alle svettanti Twin Towers dopo le scioccanti ore 8.46 dell’11 settembre 2001. Ne rividi il pozzo, profondo e pieno di acqua stagnante, l’abbandono inerte, degno dei dibattiti italiani, tra la scelta di farne un Garden memoriale o un semplice Museo, concluso solo dopo lunghi cinque anni con la vittoria della finanza e la decisione di riedificare e reinventare il World Trade Center, i sette edifici ideati da Minoru Yamasaki. Fu la rivalsa e una forma di scommessa il Master Plan for the New World Center del polacco-americano Daniel Libeskind ancora con la sua Freedom Tower, come il primo centro su progetto di un altro immigrato. Ne seguii fra le fessure del recinto la ricostruzione, la lenta evacuazione delle macerie e, rividi l’inizio dei lavori in itinere nel 2006 aggiudicatisi dall’Azienda italiana Trevi Icos Corporation per la stabilizzazione delle pareti. Si volle salvare però il ricordo, a rimozione psicologica della vittoria del cemento e degli affari. E il fosso immane rimase, ma l’area fu occupata dal National September 11 Memorial & Museum, la bocca dell’inferno con le due fontane quadrate della stessa grandezza e i pannelli in bronzo iscritti ai lati con i nomi delle vittime a memoria perenne, il vasto parco alberato, ove sedetti a contemplare le nuove torri in lavorazione e 21 metri sotto il Museo, che ho dovuto trascurare per l’interminabile coda. Il non-luogo riapparve e si ricompose, si andò riempiendo di nuove torri, fino al Seven World Trade Center. Si volle fermare il tempo, come nell’angosciante struttura di Ellis Island, con lo spettacolare Museo e la straziante sequenza di immagini lungo un intero isolato, epicedio dell’eroismo dei firemen. La grandezza di New York sta proprio in questa necessità di fermare il tempo e i ricordi, la storia, senza provarne rimorso o vergogna. Lo testimonia ancora il Liberty Park con la sua sfera originale, nella piazza della libertà.

E alla mia veneranda età la brama di rivedere e ritrovare l’immaginaria, magica City per antonomasia. E il ritorno in quell’Hotel al quale dà le spalle nel suo classico profilo Dante Alighieri davanti al Lincoln Center, opera, musica, danza, teatro con l’ossessione del musical My fair Lady, in quella infinita sequenza di luci di Broadway. Come per molti il rinomato “mal di Africa” è dentro di me mal della Grande Mela.
A profetizzare e illustrare questa riscoperta la lettura di un testo sui generis, sarcastico ed ironico, dissacrante e visionario, ma anche prova di incendio di amore, pubblicato quasi di proposito per me ed uscito proprio una settimana prima, a prefazione emotiva e presagio del mio divisato progetto colombiano, Il colosso di New York (The Colossus of New York, 2002) di Colson Whitehead nella straordinaria collana tematica New York New York della GEDI.
Sono costretto a riportare l’incipit perché si intenda il mio sconvolgimento interiore nella conferma del mio stato emotivo:
«Io sono qui perché ci sono nato e quindi sono inadatto a qualsiasi altro luogo, ma di te non so. Forse anche tu sei nato qui e prima o poi scoprirò che senza accorgercene siamo stati vicini di casa. Forse ti sei trasferito qui per lavoro un paio di anni fa. Forse per andare a scuola. Forse hai visto il dépliant […] Non importa da quanto ci abiti, sei un newyorkese la prima volta che dici: Là c’era Munsey,s, oppure: Lì una volta c’era la Tic Toc Lounge. E prima che si insediasse l’internet cafè, qui ti facevi risuolare le scarpe dal ciabattino [è vero, mi ha scioccato al Columbus Circle l’insegna Shoe Repair]. Sei un newyorkese quando quello che c’era prima diventa più concreto e reale di quello che c’è adesso.
Cominci a costruirti la tua New York privata la prima volta che la vedi. Magari eri su un taxi partito dall’aeroporto, quando lo skyline si è delineato. Tutti i tuoi averi terreni nel bagagliaio e, stretto in una mano, un pezzo di carta con l’indirizzo. Guarda: l’Empire State Building, laggiù le Twin Towers […]. Ci sono otto milioni di nude città in questa nuda città… si scontrano, battibeccano. La New York in cui vivi tu non è la mia, come potrebbe esserlo? Ti distrai un attimo e questo posto si moltiplica. Traslochiamo in continuazione».
E così con passione ed ironia via via per Central Park, la metropolitana, la pioggia o il ponte di Brooklyn, Broadway o l’ora di punta, Times Square ed altro, per chiudere con JFK. E per «ciò che non hai visto. Prometti a te stesso: la prossima volta», perché «parlare di New York è un modo per parlare del mondo».
Ma nonostante tutto non ne rividi dentro l’atmosfera in quello identico skyline intimo, che era solo mio, personale come quella di ogni newyorchese, quel sentimento di amore e di cosmopolitismo, quel sentire di esserne stato da sempre suo cittadino. La prima volta fui nei pressi della lunghissima Fifth Ave al Jolly Madison Towers tra Park Avenue e Lexington Ave con il Chrysler Building e quell’inaspettato mercatino rionale che mi ricordava quelli nostri per nostro o esotico street food. E poi l’Empire State Building ormai semplice sito di visite turistiche. Quelle le prime scorribande sulle strade di NY. Non poté da allora mancare la visita al Rockefeller Center con i suoi numerosi bassorilievi, sculture e affreschi simbolici, quel titano Atlante (volto di Mussolini?) a guardare la cattedrale e il dorato Prometeo, il Previgente, nella fossa (già aperta al pattinaggio), di fronte il kouros e la kore. E alla nostra Cattedrale di S. Patrick, vissuta la prima volta con canti gospel in una ricorrenza, il San Patricchio dei miei compaesani prizzesi. Perché alla fine essi sono molti e di grande onore e prestigio a cominciare dall’onnipresente Peter Vallone senior, decennale speaker, e discendenti, a John Sciame centro di irradiazione di attività con il diffusissimo OSIA (Order Sons of Italy in America), oltre 600.000 soci al servizio dei più di 26 milioni di discendenti italiani, l’Italian Heritage and Culture Month e il Garibaldi-Meucci Museum difficile da raggiungere a Staten Island, l’antica fabbrica di candele, sfortunata per i due. Per citare quelli a me noti, perché gli Italiani sono moltissimi e hanno anche loro fatto grande l’America. Tanti, oltre gli osannati Petrosino e La Guardia, individui anonimi e senza storia che hanno dato braccia e sudore.

Perciò in questo nuovo incontro ho provato un’intensa commozione nel portare i saluti di prizzesi, siciliani ed italiani in una particolare ed encomiabile ricorrenza, la premiazione nella City Hall da parte di Paul Vallone degli italo-americani che si sono distinti per le loro eccellenze professionali e scientifiche e le loro attività aziendali. E uguale emozione ho provato al convegno sul saggio di Barbara Faedda From Da Ponte to the Casa Italiana, la scoperta dell’avventuriero malfamato in Italia in discordia con Mozart come primo promotore e insegnante della lingua italiana a New York e autore di tanti libri, libretti e musica, dalla cui attività non remunerata sarebbe sorta Casa Italiana, eccezionale ed unica al mondo, costola della Columbia University, oggi Italian Academy for Advanced Studies at Columbia University. E propiziata dal un Virgilio di eccezione che vi vive, il direttore Stefano Vaccara, l’emozione di varcare l’ingresso dell’Onu, di salire sullo scranno dell’Assemblea Generale e del Consiglio di sicurezza, di perdermi nella maestosità dei corridoi, di sentire la sacralità di quei numerosissimi scranni vuoti in uno spazio stellare. E una sensazione dell’immenso e del grandioso e la dolorosa desolante percezione della sua inattività, spesa solo in inutili platoniche proteste e condanne, semplice flatus vocis. Nel risuonare alle orecchie i nomi che un tempo ormai troppo lontano hanno reso efficiente e utile, temuta l’organizzazione per i suoi interventi anche militari, da Kofi Annan a Kurt Waldheim a Dag Hammarskjöld. E mi parve patetico il pannello con le razze davanti al quale si aggiunge in foto la propria, irridente il ricordo dei brandelli del vestito di Hiroshima, ma ancora conturbante l’orologio che misura i miliardi spesi al secondo per armamenti (Daily Military Expenditure Worldwide, $ 3.566.178.942 nell’istantanea), quando la ricchezza di tante Nazioni è costruita su tali fabbriche e le vittorie politiche sono da esse pilotate e finanziate, certo negli USA, ma anche in grande in Italia con le sue mine antiuomo, che fanno immense terre senza vita.
Ciononostante, ho ritrovato una New York sempre cosmopolita e multietnica che mi ha stupito per la sua volatilità, una mutabilità provata dal fatto di essere un continuo immenso cantiere esteso a tutti i quartieri.

Eppure l’uomo, il newyorchese resta immutabile. E la sua ospitalità, il trovarti uomo fra uomini, sia durante il sontuoso party di compleanno nella casa museo dell’anfitrione siculo-milanese Roberto, sia nell’umile incontro con l’anonimo sconosciuto passante sui mesti viali del giardino panoramico metropolitano, la vecchia High Line, o al Chelsea Market, l’ex fabbrica di biscotti Oreo, sintesi del cosmo, che, come a Palermo e in tutto il mondo, ha bisogno di parlare, di comunicarti la sua vita, di fotografare, in una rabbrividente società della solitudine e dell’emarginazione, ove felici sono i lerci barboni che trasportano la loro casa in un carrello della spesa e dormono sulle grate emananti calore con i loro cani che ne custodiscono le offerte. Bello mio, è la società delle faccine e dei pollici, ove il colloquio, il semplice dialogo può avvenire tra sconosciuti e frettolosi passanti, tra individui, numeri senza storia e senza parola.
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