Questo è il mio quinto anno negli Stati Uniti. Da quando sono atterrato per la prima volta a JFK, l’essere un Italiano nato e cresciuto a Milano è stata, stranamente, una parte fondamentale della mia esperienza statunitense. Nella nazione degli immigrati, nel grigio della città più variegata al mondo, già da quel primo anno mi ritrovai immediatamente a tenermi strettissimo il lavorato tessuto socio-culturale che l’Italia mi aveva timbrato in fronte. Mi separava dal resto delle masse, mi rendeva diverso, più interessante. Insomma, mi rispecchiavo comodamente nello storpio ritratto d’italianità che rappresento. Proiettavo un’immagine culturale che, in quel di Manhattan, ho sempre sentito accolta, tutelata, e per fino celebrata – una sensazione che cinque anni dopo ancora fatica a svanire. Questa possibilità di mantenere ed esporre la mia identità nazionale all’interno dell’infinità di culture che offre New York spennella un vago ritratto della versione concettuale dell’America più bella e attraente che esista. Dall’interno d’una nazione che però in questi ultimi tempi si è dimostrata meno accogliente di quanto questo pigro quadro provi a dipingere, festeggiare la cultura italiana in occasioni come il Columbus Day assume una strana fisionomia concettuale sulla quale vale la pena riflettere.
Crescendo in Italia, la figura di Cristoforo Colombo mi è stata dipinta da insegnanti, film e libri, come poco altro che quella di un coraggioso esploratore. In Italia non abbiamo un Columbus Day, e, d’altronde, la storia di Cristoforo Colombo non comporta certo parte importante di alcun curriculum scolastico. Il suo mito ci viene regalato come fosse quasi una fiaba, un film sfocato che c’inonda confusamente la visione con immagini di caravelle, mari mossi e scandali politici. In Italia, quindi, Colombo (almeno per quanto riguarda la mia esperienza) non assume le responsabilità di un simbolo o d’una rappresentazione della cultura italiana. Allo stesso modo, quando in Italia si parla del genovese, il suo nome non incita dibattito sul genocidio delle popolazioni indigene. I concetti sono separati. Esistere, però, come persona Italiana in una realtà dove ambe due le cose si trasformano in veritiere, rende il Columbus Day una festività assolutamente singolare.
La prima volta che sono a venuto a contatto con la realtà concettuale del Columbus Day, una rapida reazione a caldo me l’ha pitturato come un festeggiamento della scoperta del nuovo mondo. Colombo, la rappresentazione in carne ed ossa di questo incredibile traguardo, presta semplicemente il nome all’occasione. Il dibattito e la controversia che circonda l’immagine di Colombo, nasce però solo dopo l’effettiva scoperta delle Americhe quel longevo giorno del 1492. La colonizzazione del continente e l’atroce sterminio delle popolazioni indigene che seguono la scoperta di Colombo si legano dunque inesorabilmente alla sua immagine. La stritolano senza lasciargli aria. Si mischiano all’immagine di un’icona, adagiandogli addosso un grezzo velo di triste vergogna. Giustamente quindi, negli Stati Uniti Colombo, e la festa nazionale con lui, diventano immediatamente oggetti d’accese opposizioni morali ed etiche. Tanto che, di questi tempi un anno fa, le strade di New York si accesero in protesta, reclamando la rimozione della statua del genovese da piedistalli illustri come quello di Columbus Circle. Il messaggio di queste proteste, però, non si basava sull’odio verso una figura, ma sull’odio provato verso il concetto d’un irrazionale invasione, di uno sterminio. Non protestavano dunque l’icona, protestavano ciò che ne esce dipinto nei libri di storia.

Reputo queste proteste assolutamente valide, e trovo uno strano rifugio nell’opposizione di una figura che, in questo paese, dovrebbe rappresentare la mia cultura. I protestanti non trovano offesa nella sua identità nazionale, né nel suo bagaglio culturale. Puntano il dito invece contro le mostruose politiche che il suo approdo ha comportato nel nuovo mondo. Dal mio punto di vista, tutto ciò è assolutamente legittimo. Da quello di chi si è opposto a queste proteste, il gioco però cambia. I protesters hanno in fatti trovato forte opposizione politica sia da numerosi tradizionalisti storici, che dall’enorme comunità Italo-Americana. Per loro, quello che io posso descrivere come la strana, aliena realtà, è invece fatto quotidiano. Per me, un attacco diretto alla figura di Cristoforo Colombo non rappresenta un attacco alla cultura Italiana. Come detto prima, nella mia realtà italiana, i due concetti sono completamente separati. Per un Italo-Americano, che da sempre sente la sua cultura rappresenta dall’icona genovese, i due concetti diventano giustamente impossibili da separare, ed un attacco a Colombo si traduce immediatamente ad un attacco alla propria identità culturale. Essenzialmente, dunque, il concetto di Cristoforo Colombo, come del resto tanti suoi simili, cambia e trasmuta in base al contesto.
Per molti, il concetto di Colombo rappresenta l’oppressione, per altri il progresso, e per altri ancora la cultura Italo-Americana. La violenza diretta alle popolazioni americane indigene è sbagliato, e merita protesta. La diffamazione dell’icona rappresentante di un gruppo culturale, però, merita lo stesso esatto trattamento. Tutte e due le parti hanno ragione. Il dibattito nasce in uno strano spazio concettuale dove queste diverse concezioni di Colombo prendono posto agli estremi. Le due non si possono unire perché partono da concetti di Cristoforo Colombo che non si eguagliano. Trattano in maniera diversa il suo significato nel contesto generale. Detto questo, rimane da risolvere un’impossibile questione: dove ci si schiera se si condannano le raccapriccianti azioni dei colonizzatori che Colombo rappresenta, ma si apprezzano comunque le complessità sua rilevanza culturale per la comunità Italo-Americana?
A primo tatto, ci si sente forse un po’ incastrati. Però, se indugiamo in un pochino d’innocenza infantile, potremmo lontanamente riuscire a svestire Colombo delle sue associazioni concettuali, e focalizzarci solo sul suo crowning achievement, la scoperta di un mondo fino all’ora sconosciuto. Sotto questa luce lo possiamo interpretare non come un simbolo di cultura o genocidio, ma come una semplice incarnazione umana dell’amore per l’esplorazione. Certo, è un’immagine altamente utopista, ma è proprio quest’amore per il nuovo e propulsione vero l’incerto che spinsero Colombo verso il nuovo mondo. Senza di loro, la scoperta non avviene. Potrebbe valere la pena, dunque, soffermare i nostri festeggiamenti su queste felici, nobili, virtù. Non vale neanche la pena dire che, certamente, l’America non adotterà questa politica. Però, nell’uscire da questo aggressivo primo piano, nel guardare la questione dagli occhi d’un bambino, s’accetta immediatamente il fatto che esperienze di vita diverse portino a concezioni svariate e disuguali. Questa coscienza mentale unisce. Ci aiuta a capire il punto di vista di qualcun altro, e magari esattamente come si possa arrivare a queste diverse concezioni. In questi spettrali Stati Uniti, per un Italiano in trasferta questo rispetto per i processi cognitivi rappresenta un tragitto verso quell’utopistico quadretto statunitense che abbiamo descritto prima: un America aperta ed accogliente, una celebrazione della diversità delle idee che neanche Colombo avrebbe mai potuto prevedere.
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