Era sabato, ed è stato così. È successo che mentre passeggiavo al Central Park ho sentito un’aria felice e, mentre seguivo quell’aria, quell’aria ha cominciato a seguire me. Così ci siamo incontrate. Poi l’aria si è riempita di gente e anche di note. Ho seguito la musica fino a quando ho trovato un cartello che invitava pattinatori e ballerini a oltrepassare la balaustra che recinta la pista creata per l’occasione. Gli invitati sono solo loro, sia chiaro: pattinatori e ballerini.
Ho visto pattini, tanti, ruote che trasportavano uomini e donne, piccoli e grandi. La musica funky riempiva gli spazi vuoti tra le panchine e i grandi alberi. Nel tardo pomeriggio, l’aria si faceva più fresca ma i profumi del polmone verde di New York restavano ancora dolci. Gli animi esaltati.
Le risate inondavano i vialetti del parco, una bicicletta blu, rossa e bianca, armata di stereo e fanali luminescenti si muoveva lenta, anche quella, verso la pista in cui le braccia di tanti sfarfalleggiavano beate, e poi i piedi sicuri sui loro pattini. Qualcuno appariva con le movenze di un circense, un altro col fare da modello, un altro ancora con l’abbigliamento di un dandy rock.
Le braccia sfarfalleggiavano, sì, perché pareva proprio di vedere ali colorate e antenne leggere che si inseguivano e poi si separavano. E ancora file che si aprivano, per poi disperdersi e ancora ritrovarsi.
Poi è arrivato Sandokan in versione dinoccolata, o un tipo che gli assomigliava. Così sicuro di sé dentro quel carattere che sapeva di selvaggio, piuttosto indifferente e fiero.
Adesso so che questa realtà, nata negli anni Settanta, dura nel tempo. L’associazione di pattinatori, guidata oggi da Bob Nichols, ha un fondatore: l’artista e appassionato pattinatore Lezly Ziering. Mi sono ritrovata tra di loro, nel mondo degli skaters, i pattinatori che si incontrano tutti i week end dalla primavera all’autunno nel parco più famoso del mondo, il Central Park. Quelli del CPDSA (Central Park Dance Skaters), sono i newyorkesi più accoglienti che abbia mai incontrato, quelli che ancora ascoltano la musica assieme a te e con te vogliono ballare. Per qualche ora si può vivere sui pattini, chiacchierare, ridere. Ci si prende per mano, ci si raccoglie in gruppo, si arrangiano e improvvisano coreografie.

Corpi sinuosi, di ogni età ed etnia, creano una comunità. Che bei rossetti turchesi, oppure color oro su labbra che sorridono. Nessuno è abbigliato come nessun altro. Ed è anche questo il bello della storia. Qui omologarsi è vietato, stare assieme un obbligo.
Ero lì, ed ero felice. Mi guardavo attorno e poi, senza indugiare ancora, ho superato la barricata. Sono entrata nello skate circle. Sono entrata a ballare naturalmente, anche se sprovvista di pattini. C’era un gigante davanti a me vestito alla maniera di Aladino, un omone che sprizzava veloce sulle sue rotelle mentre una bottiglia piena di chissà cosa se ne stava in equilibrio sulla sua testa.
-E’ la prima volta che vieni qui?- mi ha chiesto Marco a quel punto, uno dei fedelissimi di quell’appuntamento. Così è partita una lunga chiacchierata. Cose su quel rito della gente che pattina assieme, ma anche cose sulla propria vita. Amori, il mio gatto, il suo cane. Parole dette così, libere e amorevoli.
Poe e George non sono arrivati sui pattini. Il primo era a piedi, lui che lì conosce tutti. L’altro è arrivato sulla sua amata city bike, quella lei che da uptown lo conduce in quel mondo di musica, piante, pietra e silhouette di grattacieli con la foggia del sigaro.
Il prato era pieno di chiacchiericcio. Teli sull’erba, gambe intrecciate.

E si è avvicinata Rita. Mi ha chiesto chi sono, da dove vengo. La sua coreografia si adattava a chi era sulle rotelle, ma anche a chi si muoveva su semplici sneakers.
-Oggi il nostro dj è Nick- mi ha detto. E il funky andava avanti, impazzava con ritmi e suoni che mi riportavano alla migliore disco dance della storia. Poi il ritmo più sfrenato si è fuso alla melodia soul. Quella che nasce proprio qui, a New York.
Si ballava e si pattinava e si pattinava e si ballava. E c’era chi andava e chi veniva, solo o in compagnia.
Vi erano quelli di sempre, la grande famiglia, ma anche i nuovi avventori, quelli come me giunti lì per caso. E c’era l’estate di New York, quella stagione favolosa che sfoggia bracciali smeraldini e trecce che coprono appena le spalle nude delle ragazze.
Era tutto così beato, tutti così leggeri. Aria, note, pattini, risa.
E poi la sera. Mentre io ballavo accanto a Carolina che veniva da Long Island, Marco aveva messo mano a una parte della recinzione. La stava spostando. Perché?
No! La festa stava finendo. I volontari dell’associazione CPDSA dovevano chiudere, smontare, smettere con la musica e i balli.
-Tra un po’ il parco chiuderà- aveva detto Poe.
Il buio si faceva sempre più fitto, e un vento leggero accarezzava le braccia e le gambe sudate.

Ho seguito la luce della città, lo skyline di Midtown che si estendeva a raggiera da Columbus Circle. -Quella luce mi condurrà verso la fermata della subway- avevo pensato. Invece la luce è rimasta distante. Io ero ancora all’interno del parco.
-Da dove si esce?-

-Ti sei persa?- mi aveva chiesto Rich a quel punto. Era tra i ballerini anche lui. Anche Rich era uno di loro.
-Sali da qui- aveva detto mentre mi conduceva verso una roccia, una delle tante che coprono il territorio del grande parco. Rich mi tirava da una mano. Volevamo tagliare la strada, trovare una scorciatoia. La silhouette dei palazzi di Midtown si avvicinava. Vedevo che anche gli altri ballerini, adesso con i pattini in mano o penzolanti sulle spalle, saltellavano tra quelle grosse pietre.
Ancora un pezzo di viale e poi l’uscita.
Eravamo fuori, eravamo sbucati a Columbus Circle dove c’era lui, alto e impettito sulla sua colonna. Tra le tende delle bancarelle che stavano chiudendo, vedevo la forma della piazza e vedevo Colombo. I ballerini si separavano, si allontanavano per lasciare il parco alle proprie spalle. Lasciarlo solo per qualche ora però. Il giorno dopo, domenica, tutto sarebbe ricominciato.