Una mattina di qualche settimana fa, mentre ero sulla metropolitana di Boston per andare a prendere il treno per New York, vidi una pubblicità che diceva: “If you want to overpay for absolutely everything you have to move to NYC”. Senza dubbio, con uno stipendio da dottoranda italiana in viaggio, sapevo di non avere molta scelta: per cercare un alloggio senza spendere una fortuna, avrei dovuto tenermi a distanza dalla carissima Manhattan. Sebbene non ami affatto servirmi del servizio di Airbnb, l’unica soluzione accessibile fu una stanza in College Avenue, altezza 170esima: nel South Bronx. Armata di tutti i preconcetti possibili, sedimentati nel mio immaginario in anni di film cult come “The Warriors” o “Escape from the Bronx” e video rap e hip hop, avevo già programmato le giornate in modo tale da non rientrare in casa dopo il calar del sole. E invece la situazione del quartiere mi è apparsa subito differente da quanto avessi immaginato.
Il Bronx, quartiere che conta un 43% di residenti afroamericani e un 55% di residenti latinoamericani, ti rimette in contatto con un’espressione della socialità tanto concreta quanto lo è l’alienazione che trapela dalle monadi che affollano Manhattan a pochi blocks più a sud. Lungo le strade principali, decorosamente pulite e dalle aiuole curate, si affrettano mamme e bambini diretti a scuola, lavoratori e studenti entrano ed escono dalle stazioni; commercianti di frutta e verdura fresca espongono banchetti colorati lungo i marciapiedi e capannelli di anziani chiacchierano con occhio vigile sui passanti. Solo addentrandosi per le vie laterali, in cui mi ritrovo improvvisamente ad essere l’unica bianca, si percepisce ancora un degrado estetico, che sembra riguardare solo la manutenzione delle case e del manto stradale, perché la componete umana del tessuto sociale è vibrante. Musica rap, jazz, hip hop, latina movimenta le vie ad ogni ora e i marciapiedi sono vissuti come spazi comuni, luoghi di ritrovo in cui i ragazzi portano uno stereo, gli anziani qualche sedia di plastica, le mamme qualche buon piatto da condividere e le sere sembrano trascorrere con qualche schiamazzo ma nell’allegria, nella semplicità di una comunità unita e aperta. Nel percorrere una sola via si possono sentire i profumi di tutti i continenti, le lingue si sovrappongono e si confondono al mio orecchio. Gli abitanti del quartiere mi coinvolgono volentieri, si raccontano con generosità.

Chiacchiero con la proprietaria della casa in cui alloggio: si chiama Ruth, è una ragazza di origini dominicane che mi racconta che da qualche tempo non riesce più a sostenere il costo dell’affitto della casa in cui si trova, motivo per cui ha cominciato a tenere a balia dei bimbi del quartiere e ad affittarne delle stanze su Airbnb. Alcune signore mi indicano quali sono le groceries ancora accessibili perché, com’era intuibile, i negozi con l’affaccio sulle arterie principali (quelle più pulite, si intende) hanno alzato i prezzi. Ceno in un piccolo e modesto diner in cui la cuoca e proprietaria, di origini messicane, prega la madonna di Guadalupe perché non le alzino ulteriormente le spese di locazione, perché mantenere un esercizio commerciale da 15mq sta diventando impossibile da qualche tempo. Sembra evidente che i residenti del quartiere vivano un profondo malessere, dal momento in cui sono costretti a stare ai giochi di un’economia che comunica con una sola cultura, che non è certo nessuna di quelle che animano il quartiere. Noto un gran numero di cartelli con la dicitura “for rent” all’esterno dei negozi con la serranda abbassata, degli ingressi dei palazzi. Storco il naso, apro gli occhi ed è tutto chiaro: il South Bronx, uscendo lentamente dall’immaginario storico della degradazione urbana, sta diventando l’ultimo bersaglio dell’incessante gentrificazione di New York.
Come da manuale del piccolo speculatore immobiliare, pare che i professionisti del settore come Engel & Volkers, HouseCanary e Praetorian Group abbiano già rinominato l’area “SoBro”, per riscrivere la storia del quartiere a partire dalle inserzioni sui giornali locali. Lo storytelling del quartiere emergente, in cui soffia il vento del cambiamento, sta spaventando visibilmente i residenti, i quali hanno perfettamente chiara la fine che li aspetta a giudicare dalla situazione attuale delle ex periferie della città. Dumbo, Buswick, Astoria, Williamsburg sono solo i quartieri di più recente gentrificazione di un lungo e arcinoto elenco. Il ritmo vertiginoso della sostituzione sociale dovuta alla speculazione immobiliare e accompagnata dal rinnovamento urbano è un processo ormai così interiorizzato dagli abitanti di New York che sembra quasi che l’estetica del degrado sia preservata quale strumento di difesa, di allontanamento del colonizzatore. Fino a non molto tempo fa, il South Bronx era stato completamente cancellato dalle scelte di acquirenti, affittuari e proprietari. Fino a poco tempo fa, il Bronx era un candidato improbabile all’ondata di gentrificazione che ha investito tutta la città e ha spinto i prezzi di case, beni e servizi alle stelle. Secondo Zillow.com all’inizio di quest’anno diversi quartieri del Bronx hanno visto aumenti a due cifre, anche se, nel 2017, i prezzi medi della città sono diminuiti. La poca distanza dal centro, dai centri culturali e la grande disponibilità dei mezzi di trasporto trascendono qualsiasi resistenza dei residenti della working class: la consapevolezza diffusa delle dinamiche di gentrificazione che possono trasformare nel giro di qualche anno anche le periferie più indesiderabili in paradisi bohemien per hipster, stanno attirando i residenti della classe media. In fuga dai prezzi elevati del centro, i gentrifiers sono pronti a cavalcare l’investimento puntando tutto sugli ultimi spazi colonizzabili rimasti nelle aree adiacente al centro, con offerte immobiliari per studios da circa $ 1.500 in affitto e da $ 150.000 in vendita. E non mancano le soluzioni di lusso vista Yankee Stadium che campeggiano sulle bacheche delle vetrine degli immobiliari.

In un’intervista alla CNBC, un residente di una casa popolare che vive con sua madre in condizioni di indigenza, racconta che da quando si è reso conto che il solito negozietto dove andava a fare la spesa ha cominciato ad alzare i prezzi e a variare il target dei prodotti, la fine è iniziata. “La proprietà, specialmente a New York, è un sogno lontano” e si dice sicuro che la riqualificazione del Bronx spingerà fuori dal quartiere i vecchi residenti, cancellando la loro storia e fingendo che essa non sia mai esistita.
Mi impressiona ascoltare la lucidità, la profonda consapevolezza e l’ampia visione d’insieme con cui i residenti di questo quartiere percepiscono la realtà degli eventi e, in essa, se stessi. Essi sanno di essere parte della spazzatura che va rimossa dalle strade. Sanno di essere considerati essi stessi come il degrado, come la componente respingente, il frutto bacato da scattivare. Le loro culture ricche di storia, stratificate, millenarie, non sono che una memoria da rimuovere e sostituire con una prospettiva inversa, che non rispetta il passato, bensì lo sotterra con tonnellate di cemento per bianchi benestanti. Un futuro dedicato a pochi, in cui l’immaginario a cui le comunità residenti nel South Bronx sono stati designati non troverà spazio. Ruth, assieme ai suoi bambini, alle sue vicine di casa e ai suoi amici, in breve tempo verranno dispersi in una periferia ancora più lontana e dovranno ricominciare da capo. Proprietari del nulla, non solo di una casa ma nemmeno del proprio destino, i residenti del South Bronx hanno una sola grande eredità di cui nessuno potrà mai impossessarsi e da cui nessuno potrà mai allontanarli: la loro cultura. L’intangibile ricchezza dei poveri.