La storia è maestra di vita, dicevano gli antichi, ma, in alcuni momenti, la tentazione di rimuovere le sue vestigia è forte. Specialmente quando quelle vestigia ricordano periodi di discriminazioni, spargimenti di sangue, autentiche tragedie per l’umanità intera. Oggi, si sa, è uno di quei periodi. Lo è per l’Italia, dove da tempo infuria la polemica sui simboli – architettonici e non solo – del fascismo; lo è per gli Stati Uniti, dove il clima politico avvelenato induce qualcuno a pensare che, radendo al suolo i residui di alcune ideologie non inclusive o quelli che vengono considerati emblemi di valori divisivi (primi tra tutti le famigerate statue di Cristoforo Colombo), anche quelle ideologie e quei valori ne usciranno finalmente mutilati.
Di questo parere sono, perlomeno, i 120 artisti ed esperti che hanno redatto e firmato una lettera (qui il testo integrale) destinata alla “Mayoral Advisory Commission on City Art, Monuments, and Markers”, istituzione introdotta lo scorso settembre come gruppo di consiglieri del sindaco Bill De Blasio sui temi che riguardano l’arte pubblica e i monumenti storici. Il 28 novembre scorso, la Commissione ha tenuto la sua ultima audizione pubblica per sondare, sul tema, il parere dei newyorchesi. Nel documento presentato, dunque, fior fiori di intellettuali hanno chiesto di rimuovere tre monumenti e due simboli storici, definiti “offensivi in una città i cui rappresentanti predicano tolleranza ed equità”.
Nessuna sorpresa, a voler leggere la lista degli oggetti storici incriminati: si tratta, infatti, del solito monumento a Cristoforo Colombo al Columbus Circle, della statua equestre di Theodore Roosevelt presso il Museo Americano di Storia Naturale, e del monumento a J. Marion Sims a Central Park. I due simboli storici finiti sulla “lista nera” commemorano invece Philippe Pétain and Pierre Laval, membri del governo di Vichy noti per aver collaborato con i Nazisti e condannati per tradimento dopo la Seconda Guerra Mondiale, e si trovano nel cosiddetto “Canyon of Heroes”, a Broadway, nel Financial District. Secondo Jackson Polys, artista tra i firmatari della lettera, “questi monumenti, soprattutto la statua di di Roosevelt, comunicano direttamente un messaggio di superiorità e inferiorità su base razziale. Il rischio è che questo messaggio sia normalizzato nella vita di ogni giorno, non solo dagli adulti, ma anche dai più di 300mila bambini che intraprendono la scuola ogni anno, che potrebbero un giorno riprodurre divisioni pericolose”.
Il timore, insomma è chiaro. E’ chiaro – immaginiamo – a maggior ragione ai lettori della Voce, che hanno seguito passo passo il nostro viaggio, in corso ormai da mesi, per approfondire un argomento che divide l’opinione pubblica. Un viaggio nel quale abbiamo riportato le opinioni di politici e personaggi influenti, italiani, americani e italoamericani; abbiamo pubblicato analisi e riflessioni, abbiamo presentato addirittura qualche proposta alternativa rispetto all’attuale, contestatissima celebrazione del Columbus Day, e abbiamo dato voce agli stessi newyorchesi. Oggi, a questa già ampia carrellata si aggiunge l’appello, di cui abbiamo appena dato conto, di nomi noti della cultura e dell’arte americana, che chiedono di fare tabula rasa dei simboli storici più ambigui e contraddittori rispetto ai valori fondativi degli stessi Stati Uniti d’America.
L’argomento – è evidente – non è certo di facile disamina. Osservandolo dal punto di vista storico, il concetto di damnatio memoriae affonda le proprie radici nel diritto romano, nel quale indicava una pena, riservata a traditori e nemici, consistente nella cancellazione di qualsiasi traccia riguardante una persona. E se in età repubblicana ciò si declinava in una abolitio nominis, che impediva di tramandare il praenomen del condannato in seno alla sua famiglia e di affiggerlo sulle iscrizioni, in età imperiale iniziò una sorta di degenerazione, e si giunse a colpire indiscriminatamente, dopo la loro morte, persino gli imperatori spodestati o uccisi, condannati ad essere del tutto cancellati dalle iscrizioni dei monumenti pubblici, ad avere le proprie statue abbattute e i propri ritratti sulle monete sfregiate.
Naturalmente, la tradizione della damnatio memoriae non si arresta all’età romana, ma è proseguita in epoca medievale, moderna e contemporanea. Una delle diatribe più in voga in Italia negli ultimi tempi riguarda il destino dei simboli dell’epoca fascista: mentre alcuni sono già stati eliminati da tempo (si pensi, ad esempio, al caso di Forlì, già “Città del Duce”), altri sono vivi e vegeti, e riconvertiti a nuovi scopi: come non citare il celebre Palazzo della Civiltà italiana dell’Eur di Roma, attuale quartier generale della casa di moda Fendi, la cui disponibilità a riusarlo nonostante l’ingombrante passato ha di recente suscitato l’incredulità del New Yorker.
Ma al di là dei singoli casi, delle loro somiglianze e differenze, la domanda che rimane aperta è sempre la stessa: radere al suolo monumenti storici può bastare, in sé, a impedire che il richiamo di certe ideologie resista allo scorrere del tempo? E al contrario, abbattendo le testimonianze storiche di un passato ingombrante, ma impossibile da cancellare, non si rischia di distruggere anche i moniti, sopravvissuti agli anni, che ci riportano alla necessità di non ripetere gli errori del passato? Proclamando una “guerra alle statue”, non si corre il pericolo di rintuzzare le scintille dell’odio e delle divisioni, potenzialmente favorendo reazioni ostili e ancora più infuocate e intolleranti? E, ancora più a fondo: è giusto, legittimo, opportuno “avere paura” della storia? Non sarebbe più costruttivo, invece che accanirci contro i simboli di ciò che è stato, “far pace” con i tempi andati, e tenerci stretti gli insegnamenti che da tutto questo insostituibile bagaglio ci derivano?