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Terrore a New York: parla l’italiana che per un soffio ha scampato il pericolo

Francesca Leoni, giornalista Rai, da 30 anni in America, vive a pochi passi dal luogo dove Sayfullo Saipov ha scatenato il terrore

Giovanna PavesibyGiovanna Pavesi
Terrore a New York: parla l’italiana che per un soffio ha scampato il pericolo

La giornalista e corrispondente Rai, Francesca Leoni, alle Nazioni Unite il giorno dopo l'attentato a New York

Time: 6 mins read

Appena 24 ore prima passeggiava con i suoi due cani, non lontano da casa sua. Vive a Tribeca, con la sua famiglia. È madre di due figli, di 17 e di 12 anni. È a New York da 30 anni ed è corrispondente per la Rai. Fa la giornalista.
Alle 2.30 circa del 31 ottobre è scesa in strada. Una giornata troppo ventosa l’ha convinta a cambiare itinerario. Niente giro nei parchi per animali che costeggiano l’Hudson e si affacciano sul New Jersey. Né in quelle aree verdi, così silenziose, eppure in mezzo al traffico di Manhattan.
Francesca Leoni, il giorno dopo, sta lavorando alle Nazioni Unite. È al Palazzo di Vetro per seguire una conferenza stampa. Ripone il suo microfono nella borsa, all’interno di una custodia rigida. Poi si siede e racconta la sensazione di smarrimento quando ha visto gruppi di persone correre in mezzo alla strada. Quando tutto, a New York, si è fermato.

Francesca, dov’eri al momento dell’attacco?

“Io abito nel quartiere di Tribeca. Di solito, alle 2.30, porto fuori i cani. Visto che era una giornata ventosa, non sono andata lungo il fiume. Ma è proprio lungo il fiume che c’è un parco per cani. Dove c’è la ciclabile ci sono centri sportivi all’aperto: è un posto dove tutta la gente del quartiere va per passeggiare, rilassarsi”.

Dove ti sei diretta?

“Ho deciso di scendere su Greenwich Street. A un certo punto ho visto gente che correva: ho iniziato a sentire la polizia e le sirene. In verità, una collega del TG5, Francesca Forcella, mi ha chiamato, perché siamo amiche e mi ha chiesto che cosa stesse succedendo. Quindi, ho capito che si trattava di qualcosa di grave”.

A quel punto che cos’hai fatto?

“Sono tornata di corsa a casa, ho lasciato i cani e sono riscesa. Ho preso il registratore per cercare di capire che cosa stesse succedendo”.

Che tipo di quartiere è Tribeca?

“È un quartiere molto residenziale. Ha tre scuole, due scuole pubbliche medie, un liceo e anche un college. I ragazzi, i genitori e le persone che io conosco erano fuori a riprendere i bambini a quell’ora. Un quartiere stravolto, veramente stravolto, da un incidente che non si riusciva a comprendere. Non si capiva se fosse una sparatoria. Molte delle persone con le quali ho parlato immediatamente avevano sentito i colpi di pistola e pensavano che fosse qualcuno che sparava. Non si rendevano conto. Una mamma, che conosco, era in lacrime”.

Come mai?

“Mi ha detto che questo attentatore gli aveva, praticamente, puntato la pistola. Lei non sapeva. Nel momento in cui lui è fuggito, lui stava lì e aveva l’arma puntata. Lei pensava si trattasse di una pistola”.

Come hai vissuto quegli attimi nel tuo quartiere?

“È stato molto intenso. Perché, non solo come giornalista stavo tentando di comprendere cosa stesse succedendo, ma era il mio quartiere, quindi contemporaneamente cercavo di capire dove fosse mio figlio”.

Sei riuscita a metterti in contatto con lui?

“Sì. Mio figlio va in una scuola a Union Square. Ma siccome ieri (il 31 ottobre, ndr) era Halloween, si ritrovano lungo il parco della ciclabile. Quello è un posto pacifico. La cosa più grave che ha colpito il quartiere è che quello è un luogo sereno, anche se all’ombra della Freedom Tower, perché quando tu scendi sulla ciclabile o giochi al parco, sei sotto la Freedom Tower. Che è un simbolo”.

Che cosa intendi dire?

“Tribeca è stato il quartiere più ferito dagli attentati. Ma è anche un simbolo della rinascita, dopo l’11 settembre. Si tratta di un quartiere residenziale, ricco, pieno di bambini e quindi tutti erano sotto shock”.

Una famiglia in maschera a Chambers Street, qualche ora dopo l’attentato e a qualche centinaio di metri dal luogo dell’incidente (Foto VNY / D.M.)

E tuo figlio, quindi, dove si trovava? Era a scuola?

“Fortunatamente era rimasto a fare il suo Trick or Treat a Union Square. Essendo più grande, Halloween di Tribeca è più dedicato ai bambini delle elementari, alle medie, chiaramente ora snobba il quartiere (sorride, ndr)”.

Cosa gli hai detto quando riuscita a parlare con lui?

“Gli ho detto di tornare a casa ma lui mi ha risposto: ‘No è Halloween e a casa non ci torno. Starò attento’. E quindi, l’ho rivisto, poi, alle 9 di sera. Ma, per loro, per mio figlio, così come per i bambini, che io poi ho visto nel quartiere, sono degli eventi che rimangono lontani: Halloween è Halloween. La loro priorità ieri era quella del divertimento”.

Che Halloween è stato, quindi, quello di ieri, a New York?

“Ieri, alla fine, verso le 6, quando la situazione si era un po’calmata, i negozi hanno messo fuori le caramelle e i genitori hanno portato i bambini. Emotiva come cosa, perché li vedevi che li tenevano molto per mano. I bambini erano presi dalle caramelle, ma i genitori erano abbastanza stravolti. Chiedevano alle famiglie dov’era l’amico, se si avevano notizie in più. Perché è una comunità, chiaramente, residenziale. E quella è la giornata più attesa e anche la più allegra, per tutti quanti. È accaduto (l’attacco, ndr) in un orario veramente infelice, perché è l’ora in cui si esce da scuola”.

A che cosa hai pensato quando hai visto quella confusione? Che percezione hai avuto?

“No. La situazione mi ha congelato emotivamente. Non ho pensato a chi era e a chi non era o quale altra persona ci sarebbe potuta essere insieme a lui (l’attentatore, ndr). Mi ha ferito profondamente il fatto che la tua vita sia così fragile e ormai non ci sia più un posto dove puoi stare tranquillo. Ripeto, neanche un posto così pacifico come può essere questa ciclabile, che è veramente in riva al fiume. Insomma, non ti aspetti una cosa del genere. Quindi, se mi domandi che cos’ho pensato, non ho pensato a niente. Ero congelata”.

A qualche ora di distanza che sensazione hai provato?

“Una sensazione forte di dolore. Una ferita, anche nei confronti dei miei figli, di tutti questi bambini che hanno altre priorità. Essere travolti da qualcosa nel quale non c’entrano assolutamente nulla è agghiacciante. Perché non ti difendi, non è che gli puoi dire di tornare a casa, come ho cercato di fare con i miei ragazzi. Loro mi hanno detto: ‘Noi andiamo alla parata, noi stiamo fuori’. Quindi è terrificante che dei personaggi così, ‘sciolti’ come poi dicono, ‘lupi solitari’, possano, in così poco tempo, stravolgere una comunità”.

Sembrava quasi che molti dei ragazzi, lì attorno ad assistere agli eventi dell’attacco, fossero “abituati” a questo genere di emergenza. Si notava, quasi, poca “empatia”.

“Sì, anche a me ha colpito questo. Io ho due figli giovani: credo che faccia parte della loro ‘cultura’”.

In che senso?

“Nascono e sono nati, alcuni, soprattutto quelli più piccoli, dopo l’11 settembre e sentono queste storie continuamente. Ascoltano i genitori, continuamente, metterli in guardia. Sono notizie che sentono. E quindi, nelle loro scuole ne parlano tantissimo. Molti bambini, quelli delle elementari, sono stati trattenuti all’interno per un bel po’ di tempo, ieri. Hanno un atteggiamento molto più distaccato”.

Credi sia un modo che loro hanno adottato per difendersi?

“Sì. Ma penso che faccia parte della società in cui stanno crescendo, ahimè. Sono rimasta colpita da queste teenager che, con disinvoltura, assorbiscono un mondo così ostile. Credo che questo faccia parte della loro mondo, anche pop, nelle canzoni che sentono, tutto questo clash culturale: se tu leggi i testi della musica che ascoltano. Per loro è normale che una persona possa arrivare e sparare”.

Chambers Street, il 31 ottobre, a pochi passi dal luogo dell’attentato (Foto VNY/GP)

Tu, ieri, eri, allo stesso momento, una mamma con dei figli in giro per la città e una giornalista. In quel momento particolare, come hai fatto a scindere le due cose?

“Ci ho messo un po’. Soprattutto a capire. Io non ero solo una mamma, ma io là ho un gruppo di amiche. Tutte le madri dei ragazzi le conosco. Il mio ruolo, a quel punto, era quello di andare a cercare le persone, perché c’era parecchia gente per strada, appunto ad aspettare i figli. Quindi sono tornata a casa a prendere il registratore per intervistarle. Rapidamente ho chiamato i miei ragazzi, ho visto che andava tutto bene”.

Qual è l’evento che, in assoluto, ti ha colpita di più in tanti anni a New York? Ci fu un attentato, nel 1994, al World Trade Center.

“No, quei fatti non mi avevano colpito così perché non avevo la sensazione, come ora, di questa poca fiducia nelle persone che hai accanto”.

Neanche l’11 settembre ti fece questo effetto?

“Beh, dall’11 settembre sì. Quello è stato l’inizio. Gli attentati in giro per il mondo ti danno questa sensazione. Poi, quando ti capita sotto casa, ti rendi conto che è così. Lo senti anche quando vedi quello che è accaduto a Parigi. Poi vai nella Subway. Senti che sono degli eventi che ti tolgono l’umanità, la familiarità con gli altri. La gente si spaventa. Cambiano proprio il modo di vedere la comunità in cui vivi. Questa è una cosa molto brutta. Io ho almeno ho una mia storia, i miei figli non ce l’hanno. Ogni tanto, quando ci parlo, sento che anche loro dicono che è una cosa che non gli piace. Ho un ragazzo di 17 anni che ha tutt’altre speranze per il suo avvenire e per il mondo. Quindi non è accettabile che ci siano queste persone radicalizzate che, in nome, in questo caso dell’Isis, portino tutta questa distruzione e questo dolore nelle comunità. Insomma, spaventa. Spaventa”.

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Giovanna Pavesi

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