Lo sanno anche i bambini: quando si viene in visita negli Stati Uniti, bisogna avere un’assicurazione medica, altrimenti ci si ritrova come quel mio ex fidanzato che ha speso più di 5.000 dollari a San Francisco per un semplice calo di zuccheri. Sul serio, sono testimone. In pratica il poveraccio, disabituato com’era a malesseri del genere, ha voluto a tutti i costi che chiamassi un’ambulanza anche dopo avergli prontamente offerto acqua e zucchero. D’altronde lo sapete come sono ipocondriaci certi uomini. Basta che si sentano vagamente male e sembra che siano in fin di vita. Chiamare l’ambulanza mi è sembrato da subito un tantino eccessivo, ma lui ha voluto che lo facessi, anche perché era convinto di essere coperto da un’assicurazione. L’ambulanza è arrivata ed è stato anche piuttosto suggestivo salirci perché era un vero e proprio camioncino dei pompieri. Non so perché, ma a San Francisco funziona così: i pompieri si occupano di qualsiasi cosa. In ogni caso, tutti sono stati estremamente gentili, sia i pompieri/paramedici dell’ambulanza sia il personale dell’ospedale. La più grossa differenza culturale che ho riscontrato è stata quando abbiamo chiesto dell’acqua e ci hanno portato due enormi bicchieroni da bibita strapieni di ghiaccio. Roba da provocare una sincope anche a uno che è sano come un pesce, figuriamoci a qualcuno che è lì perché si è sentito male. Evidentemente, per gli americani una bevanda senza ghiaccio è qualcosa di inconcepibile. Siamo stati in ospedale due orette, vale a dire il tempo di fare ogni esame possibile e immaginabile, per poi scoprire che in effetti si era trattato di un semplice calo di zuccheri (ma va?!) e che non c’era niente di cui preoccuparsi. Il conto sarebbe poi arrivato con calma per posta. Abbiamo quindi lasciato l’ospedale, leggeri come due farfalle che ancora non avevano idea del conto di 5.000 dollari e del fatto che, per una serie di cavilli burocratici, l’assicurazione non avrebbe coperto queste spese. Ecco, fate tesoro di questa esperienza: tutti i soldi che investite in un’assicurazione sulla salute quando venite negli Stati Uniti sono ben spesi, così come il tempo che vi prenderete per studiarla e capirne le condizioni è ben investito.
Vi ho raccontato tutta questa storia per farvi capire che so bene che non si scherza su queste cose e non vorrei mai e poi mai ritrovarmi in America senza un’assicurazione medica. Peccato che io mi ci sia ritrovata in un momento di transizione (in effetti non ancora terminato).
Io vivo qui con un permesso, quindi non ha più alcun senso che io faccia il tipo di assicurazioni turistiche che sottoscrivevo le volte che sono venuta in vacanza con un ESTA. Non è che l’assicurazione sia strettamente legata al permesso, ma ce n’è una in particolare che mi ha consigliato un’amica e che è adatta ai liberi professionisti come me. È una delle prime cose su cui mi sono informata, solo che per fare questa assicurazione serve la NYC ID Card. Nessun problema: come tutte le persone che risiedono a New York con un regolare permesso, anche io ho diritto alla mia carta d’identità. Fare l’application è molto semplice e immediato in teoria (magari un giorno vi racconterò anche questo). Insomma, sembrava che la NYC ID Card dovesse arrivare in tre settimane al massimo (almeno di solito è così che funziona), solo che sono qui ormai da quattro mesi e la mia carta non è ancora arrivata: pare sia stata regolarmente emessa, ma sia poi andata persa e ci sono stati, in seguito, mille problemi burocratici che non sto qui a raccontarvi. Insomma, parlano sempre della lentezza e dell’inettitudine degli italiani in fatto di burocrazie, ma io sono già alla terza esperienza di quanto questo luogo comune sia ben più azzeccato per gli uffici della apparentemente tanto moderna New York. Questa, però, è un’altra storia. Era solo per spiegarvi come mai proprio io, che sono ossessionata dall’assicurazione sanitaria, non ne avessi ancora una quando mi sono ritrovata da un momento all’altro con la febbre così alta da delirare.
È successo all’improvviso. Fino al giorno prima stavo benissimo, poi è arrivata la febbre. Ero letteralmente K.O. Avevo una temperatura di 102 gradi Fahrenheit, ovvero 39 dei nostri gradi Celsius. Non avevo idea di cosa fare e, soprattutto, ero poco lucida. Sapevo di non avere un’assicurazione e che quindi, se fossi andata all’ospedale, avrei speso una fortuna. Più ancora della spesa mi spaventava l’idea dell’attesa. Non stavo in piedi, tremavo e sudavo. Non ero in condizione di affrontare una fila. Non c’era nessuno con cui fossi così in confidenza per piagnucolare di venirmi a soccorrere, come avrei normalmente fatto se questo mi fosse successo in Italia. Non avevo energie per mettermi a cercare soluzioni. Mi sono buttata a letto, lasciandomi quasi morire per ore. La mia famiglia e i miei amici mi chiamavano e mi mandavano messaggi, ma io stavo sempre peggio e sentivo le loro voci e i loro consigli provenienti da un mondo ovattato troppo distante da quello in cui mi trovavo.
Dopo una nottata da incubo, nel vero e proprio senso della parola, in cui ho cercato invano di farmi passare la febbre con le blande medicine che avevo in casa e mangiando zenzero sotto ogni forma, mi sono decisa a fare una delle cose che mi vengono meglio: consultare i siti di recensioni su internet. Così, attraverso Yelp ho scoperto che a sette minuti da casa mia c’era un medico generico e che le visite costavano intorno ai 150 dollari, certamente molto meno di quello che avrei speso chiamando un’ambulanza. I sette minuti, viste le mie condizioni, sono diventati almeno venti. Ci ho messo un’eternità. Camminavo come in slow motion. Quando sono arrivata, ero stremata. La segretaria mi ha detto che “così non si fa, non si piomba in un ambulatorio senza un appuntamento”. Ho cercato disperatamente di convincerla a farmi visitare comunque e ce l’ho fatta, a patto però, che pagassi o in contanti o con American Express (ma quanto sono venali!).
Purtroppo era solo l’inizio. La segretaria mi ha dato un tomo di almeno venti pagine (non sto esagerando) da compilare, in cui mi chiedevano della salute dei miei familiari, fino ad arrivare ai bisnonni. E fino a qui ci può stare. Il fatto è che c’erano una serie di domande sullo stile di vita alle quali non avrei saputo rispondere normalmente, figuriamoci in quelle condizioni, con la febbre così alta da avere le allucinazioni. Chiedevano cose come: “Quante uova mangi in una settimana? Quanti e quali formaggi? Quanti scalini fai in media?”. Cose assurde, seriamente. E le domande erano tutte obbligatorie. Ci ho messo una vita a compilare quel questionario e finalmente è venuto il momento di incontrare il dottore. Non vedevo l’ora di essere visitata, trovare pace e poter tornare a letto, ma non è stato così semplice.
Il dottore era un gran chiacchierone e, quando ha saputo che ero italiana, ci ha tenuto a raccontarmi della sua bella vacanza in Toscana vent’anni fa. Non smetteva più di parlare e io ero arrivata a pensare che forse ero morta e quello era l’inferno. Quando aveva finalmente esaurito i suoi aneddoti, si è rivolto a me dicendomi che avevo un aspetto gorgeous, chiedendomi se ero veramente sicura di voler spendere tanti soldi per una visita. No, perché ero così good looking che non sembrava valesse la pena. Insomma, non sapete quanto ho insistito per poter essere visitata e, quando finalmente mi ha fatto aprire la bocca, è rimasto senza parole: avevo la gola in fiamme. Avevo uno streptococco, motivo per cui avevo la febbre così alta. Il dottore mi ha finalmente prescritto le medicine che mi servivano e mi ha garantito che, se gli avessi mandato gli estremi dell’assicurazione nell’arco di tre mesi, mi avrebbe risarcito completamente la visita. Stesso discorso per le medicine, ma onestamente ero ormai arrivata al di là del bene e del male. Ero pronta a spendere qualsiasi cifra e a ipotecarmi un polmone pur di stare meglio.
Arrivata in farmacia ero letteralmente distrutta, ma ho comunque pazientemente affrontato la lunga e lenta fila. Giunto il mio turno, ho consegnato la ricetta e mi sono andata a sedere mentre preparavano le mie medicine. Ho aspettato un quarto d’ora abbondante, fino a quando non è scoppiata l’ennesima tragedia: il farmacista non era d’accordo con la prescrizione del medico, quindi aveva ben pensato di telefonargli per avere dei chiarimenti, di cui comunque non era contento. Mi ha quindi chiamata da parte e mi ha spiegato che il beverone, che il dottore mi aveva prescritto di ingerire, secondo lui andava invece usato solo come collutorio e si raccomandava di cuore di non dargli retta. Io annuivo e non ascoltavo. Ero ormai annientata. Quando finalmente era arrivato il momento di pagare, c’è stato un problema con la mia carta di credito, la stessa che uso quotidianamente nella sezione drug store dello stesso negozio. Quindi sono uscita, ho cercato il bancomat più vicino e ho poi pagato in contanti, tutto questo con le ultime residue energie che nemmeno speravo più di avere. Insomma, stare male non è mai bello, ma a New York e senza assicurazione è peggio, quindi non mi prendete in giro se mi metto la sciarpina e la maglietta della salute fino ad aprile inoltrato. Ho le mie ragioni.