Il cibo in Sicilia ha una lunga storia. Ogni ricetta in quest’isola racconta eventi, vicende e riti che affondano le loro radici in un passato antico e narrano di bisogni, sopravvivenza, spiritualità, miracoli di una terra che nei suoi anfratti più nascosti riserva ancora qualche sorpresa ancestrale.
Il cibo, quello vero, era sempre e soltanto nei giorni di festa, il resto era poco più che sopravvivenza. Nelle campagne e nei paesi, ad esempio, fino agli anni Sessanta esistevano fondamentalmente due mondi: quello della festa, laica, fatta per celebrare un matrimonio, e quella collettiva con i cibi rituali dedicati al santo del paese o a qualche altra festività religiosa importante.

A questo binomio si aggiungono, ma come mondo separato e di tutt’altra natura, i dolci conventuali e la cucina dei monsù, alta, aristocratica, di coloro che si potevano permettere zucchero, uova, burro e prosciutto tutto l’anno. Destinati unicamente a ingolosire aristocratici e alti prelati, non a propiziare stagioni e favorire raccolti, la cassata, la frutta di martorana, lo sfoglio di Polizzi – una deliziosa torta ripiena di tuma, cioccolata, cannella e zucchero -, le pecore di Favara – un dolce pasquale fatto con pasta di pistacchio ricoperta di pasta di mandorle -, il cous cous dolce di Agrigento – preparato solo con frutta secca, zucchero e semola di grano duro, gocce di cioccolato, canditi e zucchero a velo come vezzo decorativo -, per fare solo qualche esempio, meritano senza alcun dubbio un posto d’onore nella storia culinaria siciliana.
Al cospetto di queste prelibatezze barocche, i dolci laici sono quasi sempre cose molto povere anche se essenziali, in una economia frugale quale è stata quella siciliana fino a qualche decennio fa.

Nella categoria del cibo “festivo” rientrano un gran numero di dolci piccoli e grandi, fatti con impasti vari di mandorle o altro. Una leccornia “profana” ma senz’altro propiziatoria è, ad esempio, la “testa di turco”. Un dolce poco noto sui versanti nord e ovest dell’isola, eppure è forse uno dei più belli e appariscenti: tipico di Scicli è legato alla festa della Madonna delle Milizie, evento che celebra la Madonna guerriera che su un cavallo bianco, sguainando la spada, avrebbe combattuto a fianco dei Cristiani contro i Saraceni nel 1091.Gli sciclitani e i Normanni guidati da Ruggero d’Altavilla avrebbero scacciato gli invasori solo grazie all’intervento della Madonna, oggi patrona della città e festeggiata, a fine maggio, con una grande festa e questa specialità che ha l’aspetto di un fragrante turbante ripieno di ricotta e scaglie di cioccolato.
Dulcis in fundo ci sono i cibi rituali, ossia il cibo preparato per le feste dei Santi. Proprio in virtù del principio che quando c’è fame la festa è il cibo, ogni paese in Sicilia ha il suo biscotto, minestra, dolce o pane creati apposta per festeggiare il proprio santo. Rispetto a quelli laici, la differenza è che i cibi rituali si mangiano per devozione e solo il giorno della festa del santo. Festa che cade in una data solitamente cruciale per le comunità arcaiche di agricoltori e pastori per i quali la preoccupazione principale erano i cicli riproduttivi e la fertilità della terra. Da qui la necessità di esercitare un controllo sulle forze ingovernabili della natura attraverso il rito, un rito esorcizzante, propiziatorio e di ringraziamento. Riti che la chiesa cristiana ha successivamente inglobato nel calendario dei suoi santi. La festa dei Morti il 2 novembre, Santa Lucia il 13 dicembre, San Giuseppe il 19 marzo, l’Epifania di Cristo a Pasqua, e le feste della mietitura tra giugno e agosto cadono nei delicati momenti di passaggio da una stagione all’altra o nei momenti cruciali legati al tema della semina, della germinazione e del raccolto.
Il “perno” di molti di questi riti è pertanto il seme, a metà strada tra la vita e la morte e quindi perfetta rappresentazione di una dimensione ciclica del tempo, di un continuo in cui la vita succede alla morte e viceversa senza soluzione di continuità. Ciò comporta, ed è il fatto sostanziale, un’idea mai definitiva della morte e la speranza di germinazioni future, garanzia di sopravvivenza. Il fatto che la Sicilia sia stata per secoli terra quasi esclusivamente cerealicola, fa dei semi del grano e di tutte le colture a esso connesso il cuore del discorso.
Il grano sotto forma di seme o di farina è presente in tutti i cibi festivi che l’isola produce per le proprie ricorrenze, insieme ai legumi, fave, lenticchie, ceci, arance amare, limoni e melograni. Sono tutti cibi o semi onnipresenti nelle feste siciliane, a ribadire quella continuità e a rassicurare nei secoli generazioni di agricoltori.

È questa l’idea che sottende allo scambio di doni e di cibi che avviene tra i morti e i bambini il 2 novembre, una festa cardine per i siciliani, una tradizione che ha origini antiche e che affonda le sue radici nei culti degli avi greci e romani, che sulle tombe dei loro defunti portavano corone di fiori, pane inzuppato nel vino e dolcetti di miele, e nell’usanza, comune a tutti i popoli del bacino del Mediterraneo, di allestire banchetti in occasione dei funerali. Le pasticcerie si riempiono dei tipici dolci della festa, i carretti di dolciumi e giocattoli, le strade di luminarie sfavillanti ed eccentriche. Particolari dolci del periodo sono i pupaccena o pupi di zucchero, dal chiaro riferimento simbolico e scaramantico, piccole sculture zuccherate dai colori vivacissimi, raffiguranti personaggi della tradizione popolare o del mondo dell’infanzia: paladini, legionari, dame del Settecento, protagonisti delle fiabe. Forma diversa ma significato simile hanno anche le “Ossa di morto” o “Crozze ri morti”, che nella tradizione popolare raffigurano le anime dei defunti. Cibarsi di questi dolciumi durante le ricorrenze a loro dedicate diventa quindi un modo per ricordarli e per spiegare ai bambini, in forma tangibile ed eccezionalmente dolce, un concetto difficile ed evanescente come quello della morte.
Stesso pensiero rivolto al seme e a quel continuum è la minestra di grano non macinato, la cuccìa che si prepara per il 13 dicembre in omaggio a Lucia, la santa patrona della luce, protettrice della vista, proprio perché martirizzata cavandole gli occhi. Cibo della penitenza, diventato in tutta la Sicilia un trionfo di gola, il grano è condito con ricotta, cioccolato, zuccata, o declinato nelle nuove varianti che vanno dalla crema di pistacchio a quella di cacao. O, come si fa nel Trapanese, con vino cotto caramellato. È nella Sicilia profonda che si recupera il senso rituale e contadino di questo piatto, nato per celebrare – come dice la tradizione – la fine della carestia a Palermo nel 1646 e quella a Siracusa nel 1763. Sarebbe stata l’intercessione di Santa Lucia, implorata e pregata dalla popolazione alla fame, a fare approdare in porto un bastimento carico di grano. Grano prezioso più dell’oro, che la gente si precipitò a bollire e mangiare subito, senza perdere tempo a macinare e impastare pane e pasta.
Una corona aurea e augurale che incastona in superficie preziosi pistacchi o canditi ammalianti, luccicante e irresistibilmente profumata di miele e spezie dolci mediorientali è il buccellato, trionfale e barocco centrotavola del Natale, emblema di opulenza e di sapori festivi. Un dolce artisticamente cesellato per evocare più che svelare il ripieno, come a sussurrare un messaggio di golosità. In Sicilia, il buccellato o cucciddatu ha una valenza antropologica e rituale, perpetuando l’arte ancestrale dei fichi cotti al sole estivo e il fascino esotico degli ingredienti di matrice araba. L’unicità del buccellato siciliano sta nella complessità del gusto e nella cura delle fasi della preparazione: i fichi essiccati custodiscono un’ambrosia che ha una valenza quasi sentimentale, emblema della dolcezza capace di trapassare le stagioni e della vitalità estiva da custodire per affrontare con energia i rigori dell’inverno.

Come una cattedrale arabo-normanna, l’architettura del gusto del buccellato ha innumerevoli punti di vista: ogni famiglia ha la sua ricetta tramandata da generazioni ma ciascuna perpetua la sacralità dei profumi del Natale siciliano, in cui le sfavillanti note agrumate si fondono alla frutta secca, alle spezie e alla fragranza della frolla, modellata a creare uno scrigno prezioso come un merletto barocco. Gli ingredienti classici sono, oltre ai fichi secchi, la frutta a guscio, che dona aromi e croccantezza al ripieno, noci, mandorle e nocciole tostate e le spezie dolci, in particolare chiodi di garofano e cannella. La frolla ha un impasto friabile, che si ottiene dalla farina siciliana di grano tenero Maiorca sabbiata con lo strutto, viene profumata dal Marsala ed è leggermente zuccherata. Esistono poi diverse varianti: oltre al classico ripieno ai fichi secchi, la frolla può essere farcita da una composta di mandorle, cotognata, zuccata, uvetta o aggiungendo al ripieno di fichi il cioccolato fondente. In ogni provincia variano anche le decorazioni del dolce e la forma: la classica ciambella augurale può diventare una mezzaluna o venire sezionata in piccole porzioni, i buccellatini, glassati, spolverati semplicemente da zucchero a velo o impreziositi da confettini colorati.

Il 19 marzo è la festa di San Giuseppe, il santo per eccellenza, il santo falegname protettore dei poveri e degli artigiani e quindi amatissimo. Come Santa Lucia segnava la chiusura e il prepararsi sotto i migliori auspici ad affrontare l’inverno, il 19 marzo è la data di un nuovo inizio, quando la natura si risveglia e si spera in un buon raccolto. Gli altari dedicati a San Giuseppe, dalle donne che hanno fatto un voto in cambio di una grazia ricevuta, sono una epifania di primizie e di cibi esaltanti, l’inizio della rinascita e naturalmente l’arrivo della primavera. Su tutti regna sovrano il macco, una minestra di legumi e finocchietto selvatico e a seguire un corredo di frittate e di erbe amare, di dolci e di pani antropomorfi. È una epifania del cibo che imita quella della natura e si incarna secondo il Cristianesimo in quella del Cristo risorto che ad aprile accompagna la crescita e il formarsi delle spighe. Non a caso, il Risorto ha in mano un mazzo di spighe.
Nell’entroterra siciliano da Pasqua in poi è un susseguirsi di feste di ringraziamento per il raccolto, con pani ex voto antropomorfi e spighe di grano con le quali si conclude il ciclo della terra. Un ciclo che ha avuto inizio con la preparazione della terra in autunno quando – subito dopo la festa dei Morti – i semi sono introdotti nel seno della terra e affidati alle sue forze sotterranee. Un ciclo che tra dicembre e febbraio ha saputo esorcizzare quelle forze sotterranee sotto lo sguardo vigile di Santa Lucia, il fuoco delle vampe e l’esorcismo della burla carnevalesca e che, da marzo in poi, cioè dal momento in cui la spiga ha germogliato e si è alzata, finalmente esprime la speranza della rinascita e festeggia la propria gratitudine verso i propri santi che hanno sostenuto il processo generativo.
Il tema della sopravvivenza e dei bisogni dell’uomo è quindi il tema di quest’isola, che ha vissuto nei secoli con incredibile fatica e sofferenza il problema del nutrimento, inserendolo per motivi di sopravvivenza fisica e spirituale in un dialogo con un mondo altro. Forse, oggi, è difficile tornare alla dimensione della spiritualità del lavoro, ma se portassimo rispetto per un campo di grano, non in se stesso ma in quanto nutrimento per gli uomini – la terra sfama ancora qui e bisogna venire in Sicilia per capire cos’è la ricchezza del grano, la benedizione della terra, la grazia dell’abbondanza – forse gli incendiari non brucerebbero i boschi, la gente non butterebbe le cartacce per strada, i palazzinari non distruggerebbero i nostri spazi verdi, il contadino avrebbe più soddisfazione dal suo lavoro e noi pagheremmo il giusto prezzo per i frutti della terra.