Per la Sicilia, terra di straordinario, disperato incanto, amata e celebrata dai poeti, la bellezza è più di un vocabolo, è e deve essere sempre più una categoria dello spirito che contiene in sé le voci cultura, arte, storia, paesaggio, città, archeologia, teatro, cibo…Importante perché è il più potente motore di cambiamento che i siciliani hanno a disposizione, porta flussi turistici sempre crescenti, dà vita a una nuova economia e a una diversa speranza nel futuro. Ma sappiamo coltivarla e proteggerla?
L’arancia, anticamente, non si mangiava. Quando la Sicilia era la terra dei fiumi e dei laghi, gli alberi d’agrumi si tenevano per bellezza. Ed è per questo, forse, che ancora adesso – oggi le arance si mangiano – i giardini non sono proprio i parchi di aiuole e prato raso in cui cogliere le rose, ma campi lavorati dove stordirsi di zagara. Sono spazi per fare terra e giardino, a perdita d’occhio.

Sa di bello ciò che è buono ma la bellezza che “sfregia” il paesaggio del degrado sociale, disturba una certa idea della contemporaneità, perché le zone maggiormente depresse del nostro territorio non coincidono più con il pittoresco ma con la devastazione ambientale e culturale: si pensi agli incendi dolosi in paradisi quali la Riserva dello Zingaro o alle discariche a cielo aperto lungo le strade. Una tra tante? Quella che da Santo Stefano di Camastra, dunque dalle coste tirreniche, arriva fino al Mediterraneo, percorrendo un paesaggio di assoluto incanto di fichidindia e vigne, tra sughereti e uliveti. È la strada dove ogni tramonto si strugge sulle note del preludio di Cavalleria Rusticana. È la strada che si percorre per raggiungere la Villa romana del Casale, a Piazza Armerina: una delle ville più lussuose del suo genere; un complesso architettonico e artistico costruito nel IV secolo d.C. dai romani, che fecero della Sicilia la prima provincia dell’impero. I raffinati mosaici come quello delle “ragazze in bikini” e il corridoio della “Grande Caccia”, incantano turisti e studiosi da tutto il mondo.
Nel paesaggio, la Sicilia dispiega il proprio genius loci e la guerra del giardino contro il grano, ancor più dell’epopea delle conquiste militari, fa della Sicilia la ben compiuta dimora della bellezza. Il seminativo cede il passo ai fiori e il cielo si specchia sulla terra. Sono giochi di frescura, conforto tra gli orti, veri e propri monogrammi di trascrizione di poesia. Un verso su tutti, quello del poeta netino Ibn Hamdis – massimo esponente della poesia araba di Sicilia a cavallo tra l’XI e il XII secolo -, “Vuote le mani, ma pieni gli occhi di lei”, conforta il diletto dei siciliani dell’anno 1000, l’epoca dell’apice di malìa e grazia nel paese dei fiumi e dei vulcani, dove fioriscono i limoni.

La coltivazione degli agrumi, nella terra arsa dal sole, impegna l’idea superiore del “giardino mediterraneo” i cui frutti decorativi – si pensi al palmeto riprodotto nelle volte della Cappella Palatina nel Palazzo dei Normanni di Palermo – duellano contro l’arsura del paesaggio naturale, a conferma dell’irriducibile gara tra campagna e città. Un combattimento, la scelta di campo tra il destino rustico e l’urbanizzazione, che lo Stato nazionale fa proprio negli anni Trenta del secolo scorso con la guerra al latifondo. Nei feudi – nell’acqua più ambita del pescecane chiamato mafia – gli uomini delle prefetture, i soldati del genio militare, erigono i borghi rurali. Una mobilitazione edilizia che fu persino superiore, per certi versi, alla ricostruzione post-terremoto in epoca barocca: destinata alle campagne per portarvi l’elettricità, le caserme, gli uffici postali, le scuole e la modernità là dove imperava il controllo dei campieri, dei soprastanti e dei banditi. In certi casi erano anche piccolissimi insediamenti, oggi abbandonati. Un esito che riguarda anche i più grandi, malgrado i tentativi dell’Unesco di porvi tutela.
Il parco contro le sterpaglie, dunque, le irrigazioni in luogo della dispersione delle acque, i vigneti a svantaggio dei cereali, sono i giardini descritti presso Balharà, da Ibn Hawqal, mercante geografo e viaggiatore arabo che visitò la Sicilia nel 973. I seguaci del Profeta edificano tra il 998 e il 1019 il palazzo dell’emiro kalbita Ja’far a Maredolce, con il parco intorno, e tracciano le mappe. Accompagnandosi a Idrisi e ai geografi che disegnano i tre valli (Val Demone, Val di Mazara e Val di Noto), i saraceni di Sicilia – che non sono ancora i mori dell’Opera dei Pupi, contemporanei alle Crociate – pongono il sigillo al sentimento dei secoli a venire. Il poeta Muhammad Iqbal, nel 1931, durante il suo viaggio dal Pakistan verso l’Inghilterra, costeggia Mazara del Vallo e destina all’isola, “la perla dell’Islam” da lui mai visitata, il saluto di nostalgia e resurrezione di un “mondo che fu morto, oggi tornato vivo”.

Al mare intorno all’isola si affida l’estremo agguato di commovente bellezza sullo scempio orchestrato da alcuni siciliani scellerati. Come a San Lorenzo, la spiaggia prossima agli incanti di Vendicari e Marzamemi, dove c’è un insediamento non certo eretto dai militari del genio, bensì dagli abusi dello spontaneismo edilizio su cui solo le pale meccaniche potrebbero portare riparo, macinando l’ammasso di alluminio, plastica, recinti sbrecciati e automobili parcheggiate a pelo di sabbia.
Alle acque blu come il Paradiso fa da contro-canto l’orrido guasto di una incontrollata antropizzazione indegna dell’armonia del paesaggio. Guardare dalla terraferma il mare è come pregare; fare al contrario, invece, è bestemmiare: come assistere ad uno stupro, se dal golfo di Gela, in territorio di Butera, si procederà con l’intenzione di realizzare lì un parco eolico sull’acqua. Pali aerogeneratori, alti più di 100 metri, messi a trapanare il fondale basso la cui sabbia, da secoli, custodisce i più preziosi reperti del Mediterraneo.

La Sicilia ha già pagato pegno, sacrificando perle di definitiva bellezza quali Milazzo, Priolo, Augusta – sfregiate dall’industrializzazione che nulla ha dato in cambio alla Sicilia – e Gela, oggi simbolo della devastazione urbanistico-ambientale, un pugno nell’occhio della madre Gea. Uno sfregio, tra i tanti, che solo in questa terra di disperata bellezza possono succedere.
Come nel caso di Villa Deliella, a piazza Croci, a Palermo: un gioiello del Liberty, con arredi Ducrot, che Nicolò Lanza Principe di Deliella si fece costruire da Ernesto Basile a cavallo tra il XIX e il XX secolo. La villa la ricordano in molti tra i palermitani. E il modo in cui scomparve anche. Era il 1959 quando a Palermo si completò una frenetica opera di devastazione, così come richiesto dalla gravità del misfatto architettonico da assolvere.

A ragione, le vicende della distruzione dell’edificio sono diventate una delle storie simbolo del malaffare politico mafioso palermitano. “Nel 1954 – scrive Cesare De Seta nel saggio “Palermo-Le città nella storia d’Italia”, edito nel 1980 da Laterza – su proposta della locale Soprintendenza ai Beni Culturali la villa venne vincolata, essendo una delle superstiti opere del Basile. Tre anni dopo il Consiglio di Stato revocava il vincolo con una motivazione formalmente ineccepibile: non erano trascorsi i cinquant’anni dalla costruzione dell’edificio, risalente al 1909. Dunque bisognerà attendere che scocchi la fatidica data: ma il proprietario del piccone lesto ovviamente non attese che trascorresse il tempo previsto dalla legge – termine stupido, è inutile dirlo – e demolì la villa. Il piano regolatore del 1956 aveva vincolato la villa ed il giardino per uso pubblico; ma il piano viene rielaborato e nel 1959 il vincolo a verde pubblico diviene a verde privato. Il gioco è fatto”.
Fu forse un caso che l’allora sindaco di Palermo fosse Salvo Lima e che al suo fianco, in giunta, nel ruolo cruciale di Assessore ai Lavori Pubblici, ci fosse il corleonese Vito Ciancimino? No di certo. Infatti, le inchieste degli anni successivi hanno dimostrato come Cosa Nostra abbia utilizzato i propri referenti politici nell’amministrazione comunale (Lima e Ciancimino in primis) per ottenere le licenze edilizie.
Ancora oggi non è noto perché il proprietario dello storico edificio avesse deciso di favorire la sua demolizione; se cioè abbia ceduto volontariamente alle offerte economiche di chi puntava ad una possibile speculazione o, piuttosto, alle minacce di chi da quella demolizione contava di trarre profitto per l’eventuale sfruttamento dell’area edificabile.
Dopo la cancellazione di villa Deliella – e le polemiche rivolte contro il Comune, culminate nelle dimissioni dei componenti del comitato di redazione del piano regolatore – lo scandalo si trasformò in uno scempio urbanistico imperfetto: nessun costruttore riuscì ad edificare l’area, che per decenni mostrò ai palermitani il triste spettacolo di una profonda escavazione utilizzata come discarica di rifiuti. In seguito – malgrado l’opinione di quanti avrebbero voluto vedervi sorgere un giardino – lo spazio venne trasformato in un grande autolavaggio all’aperto. Ed è tale ancora adesso.

Palermo è una città che non nasconde nulla, spudorata. Ti sbatte in faccia tutto ciò che di più bello esiste al mondo, insieme alle peggiori brutture. Una città che è stata modellata dalle sue culture, fra queste anche quella mafiosa e i grandi palazzi anni ’50, alti parallelepipedi da dodici piani – una muraglia interrotta ogni tanto da sparute palazzine liberty di fine Ottocento, meravigliose nella loro decadenza – ne sono il perfetto esempio.
Orrendi nella loro modernità, sono accomunati da una curiosa caratteristica. Con una media di un palazzo ogni quattro, tutti i balconi sono impacchettati. Hanno la base fasciata con la rete che si utilizza per bloccare le frane, come fosse una decorazione. Nessun mistero. Questa appendice architettonica nasce da una ragione tristemente semplice: i materiali scadenti della mafia. Molti di questi edifici sono figli del Sacco di Palermo, una delle più grandi speculazioni edilizie della storia italiana e l’esempio lampante non solo di come lo stereotipo della mafia “coppola e lupara” sia obsoleto, ma di come la mafia abbia segnato, modificato e plasmato la Sicilia in modo gretto e brutale. Basti l’esempio della Conca d’Oro. Centinaia di ettari di frutteti e agrumeti vennero spazzati via dalla speculazione edilizia: dal 1946 alla fine degli anni ’60, circa 3000 ettari di terreni agricoli sono diventati la periferia di Palermo, mentre nel centro si demolivano le ville Liberty, tra cui Villa Deliella, una delle più interessanti opere del Basile perché mescolava lo stile liberty con un linguaggio più modernista.

Quale migliore monito, dunque, se non l’appello alla bellezza nella frase di Peppino Impastato, ucciso dalla mafia il 9 maggio 1978: “Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità…e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore”.
Nel buio delle coscienze e nell’impotenza delle leggi, educare alla bellezza significa educare alla legalità, insegnare a rispettare e a difendere il paesaggio urbano ed extraurbano. La bellezza, più di ogni altra cosa, è in grado di aprire gli occhi. Solo la bellezza, quella che trabocca nelle strade, nelle piazze, nelle chiese, nei palazzi, nei musei e nelle tradizioni delle nostre città, come pure quella calpestata e vilipesa nelle forme più selvagge e criminali e di cui, in molti casi, resta solo il ricordo, questa bellezza, se conosciuta, è in grado di infiammare i cuori, perché conoscere significa vedere, riconoscere, amare e difendere ciò che magari giace da tempo sotto i nostri occhi in attesa di catturare per la prima volta il nostro sguardo distratto.
* Nata a Palermo nel 1984, Manuela Randazzo è laureata in Lettere Classiche e Scienze dell’Antichità; ha conseguito un Master di II livello in Biblioteconomia e Archivistica e si è diplomata Archivista presso la Scuola Vaticana di Paleografia Archivistica e Diplomatica; è borsista presso il Centro Universitario Cattolico di Roma con un progetto di ricerca sul monachesimo tardoantico; è Guida Turistica Abilitata. Appassionata di storia dell’arte e archeologia, ama viaggiare e raccontare la sua terra, la Sicilia.