Una storia, anzi tante storie che si intrecciano diventando un racconto ora intimo ora corale.
Lacrime di sale, scritto dalla giornalista TGR Rai Lidia Tilotta e da Pietro Bartolo, medico di Lampedusa, racconta un’emergenza umanitaria seguendo la narrazione in prima persona di Pietro Bartolo, medico di Lampedusa, che di quell’emergenza è quotidianamente protagonista come medico.

Un libro che narra la cronaca, la realtà senza aggiungere o edulcorare nulla. Un racconto intenso in cui alla storia personale e professionale di Pietro Bartolo si affianca, senza sovrapporsi, la cronaca e i racconti dei protagonisti che ogni giorno sbarcano nell’isola siciliana. Il libro tradotto in oltre dieci lingue e pubblicato negli Stati Uniti con il titolo Tears of Salt- A doctor’s story dà voce e dignità ai protagonisti di questa terribile emergenza umanitaria.
Prima di Lacrime di sale, era stato il regista Gianfranco Rosi nel 2016 a raccontare nel documentario Fuocammare (vincitore dell’Orso d’Oro per il miglior film al Festival di Berlino) gli sbarchi e le storie a Lampedusa, dando voce all’appassionato lavoro di Pietro Bartolo.
“Amiamo dire che il nostro libro racconta “le” storie per raccontare “la” storia, dice Lidia Tilotta. “Il messaggio è uno: mettersi dalla parte dell’altro. Capire di cosa stiamo parlando. Di gente che non ha alternative. Volevamo dare dignità e un nome a chi affronta un viaggio assurdo e sofferenze fisiche e psicologiche atroci perché un’altra scelta non ce l’ha. Noi poniamo una questione di diritti, non di carità”.

Come è nata l’idea di scrivere Lacrime di sale dopo esserti dedicata al tema dell’immigrazione da giornalista?
“L’idea è nata da una necessità che avvertivo da tempo. Sono stata inviata più volte e Lampedusa per raccontare dell’arrivo di chi scappa da guerra e fame. E sono stata anche dall’altra parte, nei luoghi di partenza. Nonostante i tanti servizi per il telegiornale e i reportage per trasmissioni come “Mediterraneo” sentivo di non riuscire a far passare il messaggio che stavamo parlando di persone, uomini, donne e bambini, e non di numeri. L’occasione è arrivata nel 2014. Ero a Lampedusa per l’anniversario del terribile naufragio del 3 ottobre 2013 che provocò 368 vittime. Tra le altre cose, fui mandata dal caporedattore di allora, Silvana Polizzi, a intervistare, per l’ennesima volta, Pietro Bartolo.
Nel poliambulatorio che dirige era stata allestita una mostra con le foto scattate il giorno del naufragio dal collega Nino Randazzo. Bartolo iniziò a descriverle in un modo che sconvolse me e il mio collega Marco Sacchi con cui stavo girando l’intervista. A quel punto dissi a Pietro (con cui eravamo già amici) che non poteva continuare a tenersi dentro le storie, le testimonianze, ma che dovevano diventare patrimonio di tutti. L’ho inseguito per quasi due anni, tanto che racconta che sono diventata la sua stalker. Nel frattempo lui era diventato il protagonista di Fuocoammare di Gianfranco Rosi. Quando vinsero l’Orso d’Oro a Berlino lo chiamai solo per fargli gli auguri e lui mi rispose: “Ora il libro lo possiamo fare”. Ed è cominciata un’avventura straordinaria che ci sta portando da quasi due anni in giro per l’Italia e l’Europa a parlare soprattutto con i ragazzi delle scuole ma anche con gli adulti. E tutti ci dicono la stessa cosa: ‘Non pensavamo che fosse così'”.

Come è cambiato l’approccio nella narrazione dallo stile della scrittura giornalistica a quella di un racconto attraverso le parole e l’esperienza di Pietro Bartolo?
“In realtà noi abbiamo fatto insieme delle scelte ben precise. La prima è stata mettere insieme la storia di Bartolo con quella di chi viene a cercare una vita degna di questo nome. Poi abbiamo scelto di costruire il racconto in prima persona. Perché indubbiamente sarebbe stato più efficace. E inoltre abbiamo voluto narrare l’essenziale. La realtà, così come è. Senza aggiungere o edulcorare nulla. Amiamo dire che il nostro libro racconta “le” storie per raccontare “la” storia. Non sarebbe stata la stessa cosa scrivere un libro-intervista o parlare del fenomeno. Volevamo dare dignità e un nome a chi affronta un viaggio assurdo e sofferenze fisiche e psicologiche atroci perché un’altra scelta non ce l’ha”.
Da giornalista e da lettrice, cosa ti ha emozionato di più sentendo il racconto dell’esperienza umana e professionale di Bartolo?
“Questo libro mi ha cambiata. Per sempre. Noi ci incontravamo a Palermo ma la maggior parte delle volte lui mi inviava i racconti vocali tramite WhatsApp. Io avevo bisogno di sentirli dalla sua voce per metterli “su carta”. Lui quando raccontava riviveva e si emozionava. Io, mentre rielaboravo, non smettevo di piangere. Alla fine, quando sono andata a Lampedusa per tre giorni per rileggere la bozza con lui e la moglie Rita (donna di una importanza fondamentale nella vita di Pietro) siamo esplosi tutti e tre in un pianto liberatorio”.
Lacrime di sale unisce la vicenda personale del Dott. Bartolo alla cronaca legata all’immigrazione. Come hai legato questi due aspetti?
“Legare i due aspetti è stato più semplice di quanto non pensassi. Perché la storia di Pietro, con i dovuti distinguo, ha molto in comune con quella di queste persone che cercano di costruire un futuro per loro e per le loro famiglie. Le storie si intrecciavano in modo naturale e per Pietro è stato anche il modo di dire: “Io racconto le vostre storie ma metto a disposizione di tutti anche la mia di storia e quella della mia famiglia. Siamo pari”.

Qual è stato il messaggio forte che i lettori hanno recepito dopo aver letto il libro e hanno condiviso con voi?
“Il messaggio è uno: mettersi dalla parte dell’altro. Capire di cosa stiamo parlando. Di gente che non ha alternative. Che si mette in viaggio con le mogli incinte, con i neonati. Madri che mandano via i propri figli rischiando di non vederli mai più pur di salvarli. Noi quando vediamo partire i nostri figli anche solo per un viaggio di istruzione ci preoccupiamo di essere sempre in contatto, ci creiamo giustamente mille problemi. E un ragazzino di undici anni non lo mandiamo nemmeno a fare la spesa da solo. Ma c’è di più. Noi poniamo una questione di diritti, non di carità. Uno dei momenti più belli quando partecipiamo alle assemblee con gli studenti in aule magne gremite è quando io chiedo loro: “Per favore alzi la mano chi intende andare anche solo per un periodo a studiare o lavorare all’estero”. Le mani che si alzano sono tantissime. A quel punto dico: “E perché a voi dovrebbe essere consentito e a loro no?” E allora riflettono, pensano. Nell’era della comunicazione social semplificata e troppo spesso violenta, dobbiamo tornare a discutere a parlare a coinvolgere a stimolare. E’ possibile e soprattutto serve”.
Da anni ti occupi di tematiche legate all’immigrazione. Da giornalista siciliana come hai visto cambiare l’immigrazione in Sicilia e in Europa e cosa bisogna fare secondo te?
“Sono cambiate tante cose. Le modalità di arrivo, i luoghi di provenienza, le cause. Le migrazioni non le fermi. Sono fatti storici che si ripetono. Gestire i fenomeni migratori è compito della politica. Che invece di costruire muri, fisici e mentali, e fomentare la paura per ragioni propagandistiche, deve rimboccarsi le maniche e affrontare i vari livelli. La gestione dei flussi, la lotta ai trafficanti di uomini, l’organizzazione dell’accoglienza, l’interazione tra chi vive in un posto e chi arriva. Certamente non è semplice ma si può fare.
Ci sono stati sindaci che hanno ripopolato e fatto rinascere i propri paesi investendo su questo. E, tra l’altro, stiamo parlando di numeri ridicoli se li rapportiamo alla popolazione europea e non solo. Basterebbe che ogni comune si facesse carico di una quota (e al momento non è così) per creare le condizioni di una perfetta convivenza e di una bella interazione. Se invece la risposta è: concentriamo un numero alto di profughi magari in un piccolo paese senza dare risposte a chi accoglie e a chi è accolto è chiaro che creiamo le condizioni per un rifiuto dell’altro”.

C’è un episodio, tra le tante persone che hai incontrato durante i tuoi servizi, che ti ha colpito particolarmente e che vuoi condividere?
“Nel libro raccontiamo la storia di Mustafà. Arrivato a Lampedusa in elicottero da una nave spagnola che lo aveva salvato da un naufragio. In mare ha perso la madre e la sorella. La sua storia l’abbiamo raccontata perché il giorno prima a Lampedusa era arrivata una bimba di 8 mesi, Favour, che ha perso la madre per le ustioni da carburante che l’hanno uccisa nel gommone su cui stava affrontando la traversata. La foto di Favour in braccio a Bartolo è diventata famosa in tutto il mondo e la bambina è stata adottata dopo poco da una famiglia. Di Mustafà non ha parlato nessuno. Non aveva dignità di notizia. E allora lo abbiamo fatto noi. L’anno successivo sono andata a trovare Mustafà nella casa famiglia in cui era ospitato. In un anno Mustafà ha imparato perfettamente l’italiano. Mi ha mostrato i quaderni con voti altissimi su compiti di matematica e italiano. Disegni stupendi. Un bambino meraviglioso e vivace. Io penso che Mustafà abbia il diritto non solo di vivere una vita degna di questo nome ma di diventare ciò che più desidera, ingegnere, artista, operaio, musicista, astronauta…”.
Il tuo libro è stato tradotto in oltre 10 lingue, quale messaggio vuoi che arrivi al lettore in diverse parti del mondo dopo aver letto il libro?
“Il messaggio è sempre lo stesso. Non cambia. Anche perché siamo tutti chiamati a dare delle risposte. Ognuno nel suo piccolo per ciò che fa e i governi di questi Paesi nel decidere una volta e per tutte di ragionare concretamente su come affrontare tutto questo. Anche perché, diciamo sempre con Pietro, dei lager nazisti potevamo dire “non sapevamo”. Dei campi di tortura in Libia sappiamo benissimo e delle migliaia di morti in mare pure. E non possiamo permettercelo. Senza contare che la guerra in Siria o lo sfruttamento dell’Africa non li hanno certamente voluti i siriani e gli africani”.
Nella complessa questione legata agli sbarchi, da un lato c’è la politica, dall’altro l’umanità. Questi due aspetti non sembrano essere in sintonia. In Lacrime di sale ci sono entrambe le voci, ma sembra emergere un certo distacco dalle politiche sorde e poco umane adottate nei confronti di questo tema.
“Infatti noi diciamo che il nostro libro è “politico”. Perché oltre a raccontare le storie sta da una parte ben precisa. Non siamo neutri. E il nostro non è distacco ma attacco a queste che sono “non politiche” perché la politica è una scienza e fornisce gli strumenti di analisi e di soluzione dei problemi. La nostra è una denuncia forte e circostanziata e continuiamo a portarla avanti. Il libro è uno strumento e io e Pietro abbiamo deciso di combattere questa battaglia fino in fondo”.