Il porto newyorchese del dramma che in questi mesi sta attraversando il Mediterraneo con migliaia di morti annegati e migliaia di sopravvissuti è l’Istituto italiano di cultura. Qui approda, attraverso le parole della scrittrice Maaza Mengiste e attraverso le immagini di Gianfranco Rosi, regista vincitore del festival di Berlino con il documentario Fuocoammare (Fire at sea) in questi giorni nelle sale americane. Entrambi raccontano della tragedia dei migranti che per scampare a guerre, dittature e stenti affrontano una traversata disperata verso le coste dell’Europa, che nell’isola di Lampedusa ha la sua porta e il suo primo attracco.
Sia la scrittrice che il documentarista sono stati conquistati dalla generosità e dall’accoglienza degli abitanti di Lampedusa, una piccolissima comunità trasformata da questo esodo senza sosta. Maaza Mengiste ha vissuto sull’isola quando gli sbarchi erano incessanti e interpellavano, con tutto il loro carico tragico, la sua penna, ma anche pescatori, medici, operatori della guardia costiera, negozianti e semplici cittadini.
Rosi invece ha vissuto nella comunità quando gli arrivi erano ridotti al lumicino e la gente non aveva contatti con i nuovi arrivati, subito diretti al centro di accoglienza e da lì spostati in altre regioni italiane.
Il focus del reportage e degli articoli di Mengiste è sulle storie dei migranti, sul dramma del viaggio che dall’Eritrea, dalla Somalia, dalla Nigeria li ha portati ad attraversare il deserto fino alle prigioni libiche, tra le mani di aguzzini e trafficanti che li hanno torturati, violentati e poi costretti a salire su barconi destinati al naufragio. “Non sono numeri quelli che sbarcano o annegano accanto a quella statua della Madonna del mare che i lampedusani hanno immerso nei loro fondali quasi a far compagnia a questi cadaveri”. Il racconto di Maaza è crudo e richiama i presenti a guardare alle persone e non ai numeri: “Portano con loro Dostoevskij, papillon. Amano la letteratura come noi. Hanno le foto di famiglia, qualche ricordo e hanno impresso negli occhi quel misto di orrore e speranza”. Speranza che ben presto troverà nuovi scogli e e nuovi muri anche nella sognata Europa, sempre più impaurita e impreparata di fronte a questa brusca svolta della storia.

Gianfranco Rosi, in corsa per l’Oscar con il suo film documentario, ha puntato sulla comunità lampedusana e sullo sguardo di due ragazzini divisi tra la normale quotidianità e la tragedia di questi volti che sbarcano sulla loro isola. Samuele non ci vede, ha un occhio pigro, ma è l’ansia per la crescita in questo nuovo mondo che gli si materializza attorno che lo trova confuso, spaventato. “Il suo non vedere diventa lo schermo che lo risparmia dalla tragedia –ha spiegato il regista interpellato dal giornalista Andrea Visconti, che ha guidato il dibattito – L’altra storia cruciale del film è quella del dottor Pietro Bartolo, il medico dell’isola che ha registrato con le foto e le cartelle le storie delle migliaia di vite guarite o identificate dalla sua professione. Lui non li ha mai pensati come numeri ma persone”. Ed è proprio questo medico il custode dell’Orso d’oro vinto a Berlino e che Rosi ha voluto regalare all’isola dove ha vissuto per un anno.
Il set del documentario però non si è fermato lì. Rosi è salpato con la Guardia costiera per filmare in diretta un salvataggio, che recava con sé i vivi ma anche tanti cadaveri. “Incontrare la morte su quelle barche ti lascia un segno indelebile. Puntavo la videocamera su mani, piedi, volti. Erano morti soffocati dal fumo dei motori nella stiva. Un viaggio di appena 5 ore si era trasformato in immane tragedia. L’odore della morte e del mare non si cancellano”. Rosi non racconta, rivive quell’episodio e sul suo volto le tracce di quell’incontro sono presenti nella fronte corrugata, nell’emozione che rompe la voce. “Mi sono domandato se fosse giusto filmare quei cadaveri, se ne stessi realmente rispettando la dignità o se anche io non fossi caduto nel voyerismo e nella provocazione. Poi il comandante della Guardia costiera mi ha detto: ‘E’ tuo dovere filmare e far conoscere questa tragedia al mondo’. Mi hanno confortato solo le considerazioni di Adorno di fronte ai cadaveri dell’olocausto quando ripeteva che lui aveva il dovere di mostrare quei corpi”.
La critica lo ha definito un film politico per tutte le implicazioni che le migrazioni hanno anche con il conflitto siriano e l’instabilità in tanti paesi africani, ma non è questo l’intento di Rosi. “Volevo che la mia pellicola fosse una testimonianza, un pianto corale su una situazione inaccettabile. Voglio che il pubblico segua un processo di consapevolezza in cui ci sia posto per le domande profonde. Ed è quello che accade alla fine della proiezione, quando tanti mi si avvicinano e chiedono: ‘Io cosa posso fare?’”.
Fire at sea è prima di tutto un film urgente e necessario a capire la tragedia delle migrazioni. L’Oscar potrebbe riconoscere non solo l’impegno e l’arte del regista italiano ma premierebbe gli sforzi e l’accoglienza di un popolo umile, come quello di Lampedusa, che ha dalla sua solo la legge del mare che impone di salvare tutti a qualunque costo: una lezione di umanità per il mondo. La corsa per la statuetta dovrebbe, forse, immaginare questa meta.
Guarda il trailer di Fuocoammare: