È impossibile dire se la tregua in Siria resisterà, e quanto a lungo. Quel che si può dire, invece, è che, per arrivare ad una tregua, era necessario che gli Stati Uniti e la Russia si mettessero d’accordo.
Più volte, da queste colonne, abbiamo ipotizzato che, in quella regione devastata da cinque anni di guerra, i terreni d’intesa tra Washington e Mosca fossero più numerosi dei terreni di dissidio. Con evidenti implicazioni politiche.
La prima è la marginalizzazione dell’Europa. Niente di nuovo sotto il sole, si potrebbe dire: dalla fine della Seconda Guerra mondiale in poi, ogniqualvolta le due superpotenze si sono trovate d’accordo, sono stati gli europei a farne le spese per primi. Nel caso presente, tuttavia, la cacofonia in seno al Vecchio Continente ha contribuito in maniera non indifferente alla sua emarginazione: più i ventotto continuano a litigare come comari sul ballatoio sul destino dei profughi, più tutti gli altri attori usano questi ultimi come arma di ricatto e di isolamento.
La seconda implicazione politica è che, qualora entrambi sperino di trarne un vantaggio, Stati Uniti e Russia sono pronti a riconoscere le rispettive sfere di influenza e a rispettarle. Anche questa non è una novità. Lo hanno fatto per quarantacinque anni in Europa, appunto, e continueranno a farlo non appena se ne presenti la possibilità.
La terza implicazione è invece una novità. O meglio, conferma una novità che era emersa in termini abbastanza inequivoci nelle trattative per l’accordo detto “sul nucleare” con l’Iran: appare sempre più evidente che Washington e Mosca siano alla ricerca di un nuovo equilibrio regionale in Medio Oriente. L’agitazione della Turchia e dell’Arabia Saudita è il riflesso della freddezza crescente degli Stati Uniti nei loro confronti. La decisione di Ankara di abbattere un Sukhoi russo a fine novembre era un trasparente tentativo di mettere nell’angolo la leadership di Washington costringendola a schierarsi con l’alleato turco contro il rivale russo. La leadership di Washington, però, non solo non ha abboccato, ma si è di fatto schierata con il rivale russo contro l’alleato turco. Non solo, ma Stati Uniti e Russia si servono dei curdi siriani come fanteria, mentre i turchi li bombardano come terroristi.
I sauditi, dal canto loro, si sono lanciati in uno smodato, quanto inconsueto, attivismo militare. Oltre alla sanguinosa, e infruttuosa, spedizione in Yemen, e oltre alla fantomatica “alleanza islamica” contro l’ISIS varata in dicembre, ora Riyad ha deciso di spostare parte della sua aviazione sulla base turca di Incirlik e di farla accompagnare da alcuni suoi reparti speciali di terra. La foglia di fico della lotta al terrorismo sembra ormai caduta, e quello che resta è una nuda e lasca confederazione di scontenti, pervasi dalla palpabile sensazione di essere stati abbandonati da Washington. Una confederazione a cui potrebbe aggiungersi, a termine, anche Israele.
L’obiettivo di Mosca, in questa partita, è ritagliarsi di nuovo uno spazio in Medio Oriente, a cominciare dall’unico posto – la Siria, appunto – in cui le erano rimaste delle forze militari. Fin da quando, nel 1847, il patriarcato di Mosca ebbe insediato a Gerusalemme una sua missione, l’impero degli zar ha cercato di radicare la propria presenza nella regione, nel quadro della strategia di accerchiamento della Turchia. In quel periodo, si consolidarono anche i rapporti con la Persia: il fondatore della dinastia Pahlevi era brigadiere generale dei cosacchi persiani, e i suoi superiori erano ufficiali russi. Dopo la parentesi della rivoluzione, Mosca fece il gran ritorno nella regione sponsorizzando e armando la nascita di Israele, fortissimamente voluta da Stalin (e da Truman in funzione antibritannica).
La “guerra fredda” in Medio Oriente cominciò solo dopo che russi e americani ebbero definitivamente sloggiato gli inglesi e i francesi nel 1956; proseguì secondo le leggi aleatorie della politica internazionale, fatte di crisi, guerre, rivoluzioni, tradimenti, sotterfugi, pavidità e mutamenti d’alleanze, fino al crollo dell’Unione Sovietica.
Oggi, Mosca è di ritorno. E Washington, dal canto suo, ha bisogno di una certa libertà di movimento per poter portare a compimento la strategia di retranchment resa indispensabile dal suo declino relativo. Su quella strada, l’Arabia Saudita, la Turchia e, forse, anche, Israele rappresentano oggi ostacoli maggiori della Russia. E gli europei sono una quantité sempre più négligeable.
L’incontro tra il papa e il patriarca di Mosca il mese scorso è un tassello importante della riorganizzazione del Medio Oriente. All’epoca della caccia alle spoglie dell’impero ottomano, i cattolici e gli anglicani – i primi legati a Parigi e i secondi a Londra – erano vigorosamente opposti al ruolo del patriarcato di Mosca nella regione. Oggi, anche quel lascito viene ufficialmente abbandonato. La Chiesa di Roma cerca da più di mezzo secolo una sponda sul fronte dei “fratelli separati” dell’ortodossia; ora, la campagna di difesa dei “cristiani d’Oriente” le offre il pretesto concreto per un passo decisivo in direzione di Mosca. Nell’attesa che gli europei la finiscano con la loro rissosa inconcludenza, il papa gesuita apre intanto anche lui le porte del Medio Oriente ai russi.