Quando si parla di fenomeni come le migrazioni, i grandi numeri portano ad assuefazione e tutto diventa normale. Un milione di migranti in un anno o 412 migranti in arrivo in Sicilia. Il problema non è la grandezza del numero, ma il numero stesso. Dietro a quelle cifre ci sono esseri umani, ognuno con il proprio bagaglio di storie, aneddoti, paura, sofferenza e anche, ovviamente, felicità.
Certo, non si può sempre raccontare storie quando si è presi dalla notizia di attualità, ma penso che sia compito di chi ha la possibilità di scrivere commenti e analisi di dare un volto a quei numeri. E allora, per descrivere la rotta dei Balcani, voglio raccontarvi il tratto che i migranti percorrono in Serbia, crocevia di entrata in Europa da secoli. Mentre l’Unione europea pensa addirittura di sospendere il trattato di libera circolazione di Schengen e gli Stati membri da luglio scorso reagiscono con chiusure di frontiere e muri, c’è una Repubblica che non ha mai chiuso le frontiere e non ha mai messo in discussione il dovere di aiutare chi scappa dalla guerra. Questa è stata la scelta del governo di Belgrado che evidentemente potrebbe dare una grande, grandissima lezione di civiltà ai più ricchi governi europei.
La Serbia non è parte dell’UE, ha gravi problemi di disoccupazione e povertà, per anni è stata sotto sanzioni e ha anche subito il primo e il più lungo bombardamento NATO dalla fine della Seconda guerra mondiale: 78 giorni sotto le bombe nel 1999. La Serbia ha anche accolto, negli anni ’90, più di 800.000 profughi dalle nazioni dell’ex-Yugoslavia, in pieno periodo bellico. Non c’è da stupirsi quindi che le frontiere di Belgrado non siano mai state chiuse e che il governo serbo abbia messo in piedi, con limitate risorse, una vera e propria macchina dell’accoglienza.

Tra Miratovac e Presevo, confine sud della Serbia con la Macedonia, è normale vedere persone che scendono di casa all’arrivo dei migranti per dare loro il benvenuto in Serbia. A Dimitrovgrad, confine est con la Bulgaria, chi scrive ha visto giovani afghani ringraziare la polizia serba per il trattamento ricevuto, dopo i soprusi e i furti subiti dall’altra parte del confine. A Belgrado, nel parchetto vicino alla stazione degli autobus e dei treni, è normale vedere cittadini della capitale portare da mangiare ai migranti e comunque, passando la mattina per andare al lavoro, salutare chi transita nel Paese.

Non voglio dire che qui tutto sia perfetto. Ci sono trafficanti di uomini, come problemi nella macchina dell’accoglienza. Ed è anche vero che fino a oggi i migranti rimangono nel Paese per massimo tre giorni. Eppure qui i migranti non sono mai stati messi all’indice. Le mobilitazioni estremiste (e minoritarie) contro i migranti chiedevano comunque a gran voce la fine della guerra in Siria, non la chiusura delle frontiere. A Belgrado, come ovunque nel Paese, è facile sentire racconti di serbi che spiegano come sia impossibile per loro “avercela con i migranti”: “Noi sappiamo bene cosa significa non avere più una casa e scappare dalla guerra”. Come è facile trovare volontari della Croce Rossa che sono arrivati bambini profughi dalla Bosnia, dal Kosovo e Metohija, dalla Croazia e che oggi raccontano come i loro ricordi siano gli stessi dei piccoli siriani o afghani arrivati in città: una grande stazione, palazzi immensi, qualcosa che non avevano mai visto. Molti di questi bambini, diventati adulti in Serbia, hanno deciso di diventare volontari della Croce Rossa “per ricambiare al mondo quello che avevano ricevuto da piccoli”. E oggi assistono i nuovi arrivati con un’empatia che si può chiaramente leggere negli occhi, nei movimenti, anche solo in un abbraccio e in un sorriso a chi scappa da bombe, violenza e persecuzioni. Quando ero in Serbia, il Ramadan era appena finito e un’associazione locale ha organizzato la festa della fine del digiuno per i migranti. Il tutto è finito con i serbi che, tornando dal lavoro, compravano dolcetti libanesi da offrire a siriani, afghani, iracheni. Il giorno dopo sui giornali c’era la notizia della grande festa fatta da serbi e migranti. Tutti insieme. Senza dover per forza cercare il marcio, come fanno molti, troppi, politici e giornalisti in Italia e in Europa.