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February 4, 2016
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Stragi in Siria e “doppiopesismo” occidentale

La recente strage di sciiti a Damasco e le tiepide reazioni estere

Tommaso Della LongabyTommaso Della Longa
siria-strage-damasco
Time: 4 mins read

Lo avevamo scritto a gennaio 2015 proprio qui, sulle colonne de La Voce di New York: “Non esistono morti di serie A e di serie B. Se vogliamo veramente incarnare i principi della civiltà europea, non possiamo farlo a corrente alternata”.

Dopo più di un anno, invece, nulla è cambiato. Anzi, possiamo purtroppo dire che la situazione, a livello globale, sta degenerando e diventando di ora in ora più preoccupante. Mentre scriviamo questo pezzo, il presidente statunitense uscente Obama fa sapere di voler quadruplicare il budget delle spese militari  contro i nuovi nemici di Washington: ISIS e la Russia. Si parla addirittura di divisioni corazzate in Europa. Dall’altra parte, il presidente russo Putin è pronto a nuove liberalizzazioni e quindi a vendere i gioielli statali ai privati per evitare di alzare le tasse (sarebbe impopolare con le elezioni parlamentari alle porte) e soprattutto evitare di tagliare le spese militari. Uno scenario da Guerra Fredda che fa rabbrividire.

Eppure ci sarebbe ancora qualcosa da fare per fermare questa corsa alle armi. Per esempio, tornando ai morti di serie A e di serie B, si potrebbe prima di tutto finirla con questo odioso “doppiopesismo” occidentale che getta solamente benzina sul fuoco. Di cosa sto parlando? Lo scorso 31 gennaio alcune esplosioni a distanza, un attacco misto tra autobomba e attentatori suicidi, hanno fatto strage a Damasco, uccidendo più di 80 persone e ferendone oltre 100, colpendo il santuario di Sayyida Zeinab, mausoleo sacro per l’Islam Sciita che custodisce le spoglie di una delle nipoti di Maometto, figlia di Ali. Un massacro di civili che voleva colpire un luogo santo per i pellegrini sciiti e mandare anche un avvertimento a Ginevra durante i colloqui di pace sulla Siria (che tra l’altro sono falliti miseramente dopo poche ore, per divergenze insormontabili tra governo siriano e gruppi ribelli, leggasi vittorie sul terreno della coalizione pro-Assad e pochissima forza dei gruppi ribelli che tanto piacciono all’Occidente, ma che poco contano davanti a ISIS e al-Qaeda).

E, sempre domenica 31 gennaio, i terroristi nigeriani di Boko Haram hanno attaccato e dato fuoco al villaggio di Dalori, massacrando 86 tra uomini, donne e bambini e ferendone più di cento.  I pochi superstiti raccontano di un inferno di fuoco, di persone bruciate vive, e di fuggiaschi uccisi dai colpi di AK-47. Intanto in Chad, stato confinante della Nigeria, tre attentatori si sono fatti saltare in aria uccidendo nove persone e ferendone 52: qui i target sono stati due villaggi e addirittura un campo da calcio dove giocavano alcuni bambini.

Dopo questa orribile domenica di sangue, la notizia è diventata ovviamente di dominio pubblico a livello mondiale. Ma oltre alle analisi (spesso sommarie) e all’indicare nel caso della strage di Damasco che quel quartiere era pieno di sostenitori di Hezbollah, come se fosse quasi una giustificazione al massacro, non si è vista nessuna mobilitazione internazionale di condanna e di solidarietà come nel caso di Parigi, tanto per fare un esempio. Certo, il segretario generale dell’ONU, Ban Ki-moon, ha definito l’attentato di Damasco “atroce” e la stessa parola è stata usata dal Consiglio di Sicurezza per il massacro compiuto da Boko Haram. Ma non abbiamo visto i cori di sdegno dei politici europei e occidentali che avevano parlato di “attacco contro l’umanità” dopo gli attentati di Parigi. Nessuna icona sui social media, nessun cambio di foto di profilo con le bandiere siriane, nigeriane o del Chad. Nulla.

Il terrorismo genera paura, la paura porta all’odio, l’odio alla guerra. Per fermare questo meccanismo il giornalismo, ma anche l’uomo qualunque, può fare qualcosa. L’attacco contro l’umanità è sia a Parigi che a Damasco. Lo sdegno e la solidarietà devono essere identici. Dobbiamo togliere terreno a chi soffia su queste differenze per far crescere risentimento e frustrazione. E ricordarci sempre che quando i nostri politici votano per nuove bombe da sganciare in giro per il mondo, dall’altra parte ci sono civili che le soffriranno senza distinguere tra bombe “umanitarie” e quelle terroristiche.

Badate bene, questo non vuole essere un pezzo sterilmente pacifista. Vuole essere un avvertimento e una richiesta di maggiore analisi senza pregiudizi. Forse bisognerebbe prima di tutto tagliare i finanziamenti e gli aiuti internazionali all’ISIS invece di approvare nuovi bombardamenti. Ascoltare le organizzazioni umanitarie e costituire corridoi umanitari per arrivare in un luogo sicuro, invece di costringere centinaia di migliaia di esseri umani a viaggi molte volte della morte. Aiutare le forze sul campo che combattono il terrorismo (anche se non figurano tra i migliori amici dell’Occidente o dei turchi come nel caso dei curdi), invece di cercare in ogni modo di trovare un gruppo ribelle amico anche se poi farà l’occhiolino a ISIS e qaedisti. Ovviamente tutto questo non è all’ordine del giorno nelle agende saudite o turche, per non parlare di quelle occidentali. Abbiamo, o meglio hanno, combinato un bel guaio in Siria e invece di porvi rimedio si aggiungono solo problemi e tensioni. All’inizio non esisteva neanche l’ISIS, oggi è un franchising che fa paura in qualunque angolo del mondo ed è la nuova giustificazione per ogni intervento armato.

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Tommaso Della Longa

Tommaso Della Longa

Giornalista, giramondo, romano e romanista, classe 1980. Scrittura e viaggio sono la mia vita. Per anni freelance in zone di crisi, poi nell’umanitario, prima nella Croce Rossa Italiana e poi in quella Internazionale. Ho tanti posti preferiti, tra cui Gerusalemme, Beirut, il Turkana e Belfast. Porto nel cuore le storie delle persone incontrate, dal Congo alla Siria, fino alle strade italiane. Il sorriso dei migranti, in Serbia come in Iraq o a Lampedusa, mi spinge ad andare avanti cercando di capire, imparare e raccontare sempre la verità, anche se scomoda. Ho denunciato gli abusi “in divisa”, come ho indagato sulle pagine buie degli anni di piombo. Dopo un anno a Beirut, sono tornato a Roma, perché ancora credo si possa costruire qualcosa in Italia. Sono un irriducibile idealista, lo so.

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