Finalmente una lapide. Almeno quella. Stamattina a Palermo, in un vicolo che si apre su via Maqueda, il vicolo Sant’Orsola, si è svolta la cerimonia della scopertura di una lapide per ricordare la “Strage del Pane”. Era il 19 ottobre 1944 quando l’esercito sabaudo aprì il fuoco contro un corteo di lavoratori e giovani studenti che chiedeva pane e lavoro. In via Maqueda, per l' appunto. Il bilancio delle vittime davvero tragico: 24 morti e 158 feriti.
Il vicolo che, da oggi espone la lapide commemorativa, collega via Maqueda al quartiere di Ballarò (famoso per il grande mercato rionale): proprio lì avevano cercato riparo, senza riuscirci, molte delle vittime della violenza dell’esercito italiano.
Alla cerimonia hanno preso parte, tra gli altri, il Sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, l'assessore alla Partecipazione, Giusto Catania, il presidente del Consiglio comunale, Salvatore Orlando e il commissario della Provincia, Manlio Munafò. E c’era anche Gaetano Balistreri, unico superstite di quel tragico giorno: aveva 10 anni e si salvò, con qualche ferita, per miracolo.
"La lapide in ricordo di quella barbara strage – ha detto il Sindaco, Leoluca Orlando, – è, finalmente, un gesto di riparazione da parte delle istituzioni e della città. Il dovere della memoria, infatti, ci impone di non dimenticare una delle pagine più tristi della storia di Palermo. La strage del pane è stato un enorme sacrificio e continuiamo a ricordarlo come simbolo del diritto dei popoli di rivendicare la propria libertà e per il diritto alla vita e alla dignità".
A dire il vero, di riparazione non si può ancora parlare. Anche perché a ‘riparare’ non dovrebbe essere la città di Palermo. Parliamo, infatti, di uno degli eccidi più efferati della storia unitaria italiana. Parliamo di quella che il professor Francesco Renda definì la “prima strage dell’Italia liberata”. E, in quanto tale, non sono mancati depistaggi, insabbiamenti e menzogne ufficiali.
“Tanto fervore per la strage di Portella della Ginestra, che in termini di vittime non fu così drammatica (nove morti contro 24 e 158 feriti) e niente su questa strage, non ce n’è traccia traccia neanche sui libri di scuola” dice lo scrittore, Lino Buscemi, a lavocedinewyork.com
Buscemi ha dedicato scritti e convegni a questo fatto (è coautore, tra le altre cose, del volume La Sicilia delle stragi, edito da NewCompton), contribuendo a squarciare l’obliò cui la cultura ufficiale aveva destinato una delle pagine più buie della storia palermitana.
“Dal 1944 ai primi anni novanta, su questa strage vigeva il silenzio più assoluto. Solo dopo una serie di convegni e di libri si è cominciato a dare attenzione a quella che il professor Renda ha definito la prima strage dell’Italia liberata. Una strage – ci racconta lo scrittore – che lanciava un chiaro segnale politico alla Sicilia: l’Unità d’Italia non poteva essere messa in discussione”.
Buscemi, quindi, ci riporta indietro nel tempo. Fino al 1944, un anno dopo lo sbarco degli alleati in Sicilia. Sono gli ultimi mesi dell’amministrazione americana (Amgot) dell’Isola. Gli ultimi mesi di speranza di una Sicilia diversa.
“In quegli anni il sentimento indipendentista in Sicilia era diffusissimo- osserva lo scrittore- si sognava un futuro migliore di quello ch l’Italia Unita aveva riservato alla nostra regione. In un primo momento pare che gli Usa appoggiassero queste aspirazioni indipendentiste, poi, però, nella suddivisione territoriale tra le grandi potenze, il sogno di una Sicilia indipendente non trovò più spazio”.
Proprio in quel momento, il Governo italiano mostrò il suo volto più duro: nessun dialogo con la Sicilia, solo la forza bruta.
“E’ in questo contesto che matura la strage del pane. Il Governo italiano, – spiega Buscemi- di cui facevano parte anche i comunisti, con Togliatti al Ministero della Giustizia, decide di usare le maniere forti e manda l’esercito a sparare su una folla inerme. Almeno 15 i minorenni rimasti uccisi e pure due povere donne, le signore Parrinello, due stiratrici che passavano lì per caso, non stavano neanche manifestando. L’Esercito sabaudo usò i fucili e le bombe. Il nuovo potere che si stava consolidando in Italia mandava un segnale chiaro a chiunque sognasse qualcosa di diverso per la Sicilia”.
Una strage che colpì per la sua efferatezza, anche il Console americano Nester che, in quegli anni era in Sicilia:
“Grazie all’apertura degli archivi americani ho potuto leggere alcuni rapporti, tra i quali quelli del Console Nester che scrisse ai suoi superiori per segnalare quella strage. Il console ne sottolinea l’efferatezza e confessa di non riuscire a capire il perché di tanta violenza”.
Anche quello che successe dopo non è da meno.
Dice Buscemi: “Ripulirono tutta via Maqueda per togliere ogni traccia. Impossibile trovare una foto di quei fatti. La versione ufficiale sostenuta dall’esercito sabaudo fu quella di un assalto da parte dei separatisti. Una bugia plateale. Per strada in via Maqueda c’erano lavoratori, studenti, passanti. Tra l’altro, proprio quel giorno i separatisti erano a Taormina per una riunione del Movimento per l’Indipendenza della Sicilia. Certamente- sottolinea lo scrittore- il sentimento indipendentista era molto diffuso, era sinonimo di voglia di riscatto. Ma dare la colpa ai separatisti è una sporca bugia”.
E, il processo che ne seguì, infatti, fu una farsa: “Celebrato nel 1947 davanti al tribunale militare di Taranto, si concluse con la derubricazione del reato di strage ad eccesso di difesa. Con l’amnistia di Togliatti, si salvarono tutti. Nessuno ha mai pagato”.
Dopo 50 anni, però la verità venne a galla. Buscemi racconta a Lavocedinewyork.com che nel 1995, Giorgio Frasca Polara del quotidiano l'Unità, lo mise in contatto con il sardo Giovanni Pala, uno dei militari appartenenti al Reggimento coinvolto nella feroce repressione:
“Pala mi disse che in Via Maqueda nonc’era mai stato alcun assalto, né da parte dei separatisti né di altri. Ma che i soldati avevano ricevuto l’ordine di scendere dai mezzi e di caricare i fucili contro la folla”.
Il contributo di Pala è stato particolarmente importante e coraggioso, anche perché il soldato sardo non sparò alcun colpo e non lanciò alcuna bomba a mano, disubbidendo all’ordine dei superiori, al contrario dei suoi commilitoni.
Dunque “ci sono voluti 50 anni perché il muro dell’omertà finalmente crollasse. Per almeno mezzo secolo si è brancolato nel buio più fitto, perché la consegna del silenzio è stata assoluta, probabilmente per scelta politica e militare”.
Lino Buscemi non ha dubbi: “Bene che si sia deposta una lapide, ma la prima vera strage dell’Italia liberata meriterebbe di essere ricordata e studiata nei libri di storia, soprattutto con il timbro dell’ufficialità di una sentenza di un Tribunale Militare della Repubblica Italiana”.