Nelle scorse settimane la commissione Ambiente dell’Assemblea regionale siciliana (il Parlamento dell’Isola) ha approvato a maggioranza la proposta di un referendum abrogativo dell’articolo 38 del decreto Sblocca Italia (che, nel frattempo, ben sette regioni, Abruzzo, Calabria, Campania, Lombardia, Marche, Puglia e Veneto, hanno impugnato dinanzi la Corte Costituzionale) per bloccare nuove trivellazioni nel Canale di Sicilia e un disegno di legge-voto per cassare la stessa norma (per la cronaca, la legge-voto viene approvata dal Parlamento dell’Isola per spronare il Parlamento nazionale, al quale comunque resta l’ultima parola).
Potrebbe essere questa l’ultima spiaggia per i siciliani e per molti italiani dopo la decisione del governo di trapanare buona parte del mar Mediterraneo. La storia di ridurre alcune Regioni del Meridione d’Italia e il mar Mediterraneo a veri e propri colabrodo per estrarre petrolio (e altro) risale a millenni fa. Ma il cambiamento epocale è da far risalire al XIX secolo, di pari passo con l’industrializzazione dell’economia: fu allora che il petrolio dei pozzi del Centro e Sud Italia, fino ad allora utilizzato quasi esclusivamente per l'illuminazione, divenne risorsa energetica insostituibile per lo sviluppo delle imprese del Nord del Paese.
A questo pensarono i sovrani di turno (gli stessi che avevano trasferito le riserve auree del Regno delle Due Sicilie dal Sud al Nord: a Torino, prima, e, poi, a Roma) sulla base della legge del 17 ottobre 1826 sulla “ricerca e scavo delle miniere nel regno” con la quale veniva liberalizzata la ricerca. Con lo stesso provvedimento legislativo si concedevano i diritti per lo sfruttamento delle risorse minerarie "tanto metalliche, che semi-metalliche", tra cui il bitume. Poco tempo dopo cominciarono le estrazioni di petrolio: la prima, nel 1860, fu fatta da Achille Donzelli. Da allora lo sfruttamento dei domini italiani da parte di chi sbarcava in Sicilia non è più cessato (tranne brevi pause).
Alla fine della Prima Guerra Mondiale, arrivarono in Sicilia i primi geologi americani che ispezionarono a fondo tutti i terreni superficiali e non. Ma i territori interessanti per chi voleva sfruttarne le risorse non erano solo quelli nazionali: nel 1926 l'AGIP, l’Azienda Generale Italiana Petroli, intraprese attività di ricerca e produzione anche in molti Paesi del Mediterraneo. Nel 1949 vanno in scena le ricerche nella provincia di Ragusa, in un’area in cui manifestazioni superficiali di idrocarburi e depositi di bitume o asfalto erano note sin dal tempo degli antichi greci. Ricerche condotte da aziende nazionali, ma anche da aziende estere come l'americana Gulf che realizzò quello che allora era il maggior giacimento di petrolio dell'Europa occidentale.
Del petrolio di Ragusa si interessò, in quegli anni, anche l’Eni di Enrico Mattei. E fu proprio quest’ultimo – ovviamente con l’ausilio dei tecnici dell’epoca – a stabilire che il petrolio del mare di Ragusa era a grandi profondità e, di conseguenza, molto costoso da estrarre. Oggi che il petrolio comincia a scarseggiare sta diventando importante. In quel periodo cominciarono anche le trivellazioni in mare aperto nell’Adriatico. Nel 1957 venne introdotta una legge (la prima in Europa) per disciplinare questa attività e favorire la ricerca di petrolio e altri combustibili nell'offshore marino, definendo le regole per l'attività e l'attribuzione dei diritti di ricerca. Fu allora che gli italiani e, in modo particolare, i siciliani compresero che in realtà, delle ricchezze del loro territorio a loro non sarebbe rimasto quasi niente. Sono passati molti decenni, ma la situazione non è cambiata.
Ancora oggi il consenso a trivellare viene celato dietro la promessa di futuri guadagni. Come quelli promessi dal presidente della Regione Siciliana, Rosario Crocetta, che ha cercato di giustificare la decisione del governo Renzi (che, ricordiamolo, ignorando le Regioni, ha deciso che i petrolieri potranno cercare il petrolio dove lo riterranno più opportuno: da qui i già citati ricorsi di ben sette Regioni, ad eccezione della Sicilia, visto che Crocetta fa finta di non capire), dicendo che la Sicilia, dalle trivellazioni, avrebbe incassato royalties per 500 milioni di euro all’anno. I numeri reali però sono ben diversi: nel 2014 la Sicilia ha ricevuto solo 1,5 milioni di euro, al netto delle concessioni a terra (dati Unmig, Ufficio Nazionale Minerario per gli Idrocarburi e le Georisorse).
Una differenza sorprendente. Come sorprendente dovrebbe essere il cambio di opinione di Crocetta: nel 2013 (come riportato dalla Reuters), in occasione di un’audizione presso l’Assemblea regionale siciliana in materia di trivellazioni offshore, ha detto che avrebbe contrastato “questi progetti e, ove la Regione fosse bloccata perché le competenze sono appannaggio dello Stato, è disponibile a portare avanti un’azione politica per affermare la necessità di un’intesa vincolante bilaterale tra Stato e Regioni, lavorando al fianco della commissione Ambiente, delle associazioni e dei cittadini”. A conferma dei propri intenti ha sottoscritto l’appello di Greenpeace contro le trivellazioni.
Poi, però, come gli capita spesso, ha cambiato idea. Di combustibili fossili ce ne sono in molte parti d’Italia e anche d’Europa. Ma in queste zone vincoli ambientali e ragioni di sicurezza (in caso di problemi agli impianti) hanno fino ad oggi bloccato l’accesso ai giacimenti. L’Europa del petrolio è frenata dai divieti. Come sottolinea Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, “persino dalla Polonia, lo Stato europeo più promettente per lo shale gas, l’Exxon, l’Eni e altre compagnie se ne sono già andate”.
Per questo le multinazionali del petrolio che sono scappate dagli altri Paesi europei hanno pensato bene di tornare dove sanno già che il petrolio c’è e di battere cassa sull’unico Paese in cui “tutto può essere risolto”. E hanno avuto ragione. “Risolvere” i problemi in Italia e in Sicilia è facile. Lo dimostra la facilità con cui i nostri politici cambiano idea sull’argomento. Ad esempio, il premier Renzi, quello che oggi ben felice di poter sforacchiare la Sicilia e molte altre regioni del Mediterraneo, non più tardi di un paio d’anni fa sosteneva l’esatto contrario: “Il futuro del nostro Paese è lontano dai combustibili fossili: il futuro del nostro Paese è l’efficienza energetica, l’innovazione e l’uso delle rinnovabili" (21 Novembre 2012, Le Scienze). Sono bastati due anni e la sua opinione è radicalmente cambiata: “Siamo in una forte crisi energetica e non estraiamo il petrolio che c'è in Basilicata e Sicilia. Io la norma – ha detto lo stesso Renzi, che si presenta come il ‘Nuovo che avanza’ – per tirar su il petrolio la faccio, anzi l'ho fatta”.
Nonostante “avveniristiche” tecniche di gestione dei bilanci statali (come inserire nel calcolo del Pil spese ancora non incassate o provenienti da attività illecite o dalla prostituzione), le ‘casse’ dello Stato sono vuote e assetate di soldi. Soldi che le grandi aziende petrolifere sono ben felici di pagare per due motivi: innanzitutto perché in Sicilia e nel Mediterraneo il petrolio non devono andare a cercarlo. Sanno benissimo che c’è.
E poi perché le royalties che vengono pagate in Italia per lo sfruttamento dei giacimenti sono tra le più basse del mondo. Come ha denunciato l’eurodeputato Ignazio Corrao: “In Sicilia e Basilicata si estrae il 90% del petrolio italiano, peccato che le compagnie minerarie pagano le royalties più basse del pianeta: il 7% contro il 50% dei Paesi arabi”. Una buona ragione per cambiare idea. E senza ascoltare nessuno. Né i membri del suo stesso partito né il parere delle commissioni parlamentari. E neanche chi, in materia ambientale, forse, ha più esperienza di lui.
Come il WWF che, nelle scorse settimane, ha lanciato l’allarme con una campagna dal titolo emblematico: “Il petrolio mi sta stretto – le trivelle per l’estrazione del petrolio sono una grave minaccia per il Mare Nostrum”. O come gli esperti di Greenpeace che ha già più volte lanciato l’allarme sulle conseguenze che potrebbe avere la decisione del governo di sforacchiare il Mediterraneo.
Non a caso la stessa Greenpeace, l’associazione Arcobaleno, cinque amministrazioni comunali, l’Anci Sicilia e ad altre associazioni ambientaliste, più associazioni della pesca e del turismo hanno presentato riscorso al Tar del Lazio. Un invito a tornare (un’altra volta) sui propri passi anche per il presidente Crocetta che, sotto la pressione del governo centrale e, soprattutto, di un debito pubblico regionale che ha raggiunto cifre astronomiche e impronunciabili, ha anche lui cambiato idea e ha deciso che è “giusto” vendere i diritti di perforazione del mare intorno alla Sicilia.
Anzi, forse sarebbe meglio dire “svendere”. Sventrare il mar Mediterraneo in cerca di petrolio, però, farà entrare nelle ‘casse’ dell’Italia e della Sicilia ben pochi quattrini. Soldi che, come se non bastasse, potrebbero finire in sanzioni comunitarie. L’impeto (le procedure per la concessione dei diritti a trapanare il fondo del Mediterraneo viaggiano ad una velocità mai vista) di regalare il Mediterraneo alle grandi multinazionali del petrolio (le uniche vere beneficiarie insieme alle grandi banche dell’iniziativa), infatti, potrebbe far beccare all’Italia una sanzione da parte dell’Unione Europea per aver aggirato le norme in materia di protezione ambientale, consentendo la ricerca di idrocarburi con trivellazioni sia nell’entroterra, sia in mare.
L’allarme è stata lanciato, nei giorni scorsi, dal Movimento 5 Stelle. Ma di questo al governo nazionale e a quello regionale importa poco: sono soldi che, comunque, non uscirebbero dalla tasche di chi ha sbagliato le proprie valutazioni, ma, come sempre, da quelle degli italiani. In cambio ai Siciliani e agli altri italiani resteranno un mare (uno dei più belli del mondo) inquinato, aree (quelle limitrofe ai giacimenti) con classi di tossicità altissime e rischi per la salute dei lavoratori impiegati nel settore dell'estrazione e dei cittadini che abitano in quei territori (la mortalità per tumore in alcuni Comuni della Sicilia come Gela, Augusta e Milazzo ha già raggiunto percentuali molto al di sopra della media nazionale, ma questo evidentemente importa poco a chi pensa solo al Pil). Soldi. Solo soldi. Sempre soldi.
Sì, perché la verità è che della Sicilia, delle altre Regioni del Mediterraneo e di molti Paesi del Nord Africa non importa niente a nessuno. Importa solo dei soldi che il governante di turno può spremere dall’Isola e dalle sue risorse. Soldi che, comunque, non basteranno a colmare le voragini dei bilanci pubblici: serviranno solo, come ha dimostrato la storia degli ultimi duecento anni, a concedere il permesso alle solite multinazionali di ridurre a un colabrodo tutto il Mediterraneo.