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March 2, 2015
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L’Accademia del Parnaso di Canicattì: quella satira beffarda che arrivò fino in Spagna…

La Voce di New YorkbyLa Voce di New York
Time: 7 mins read

Si chiamava 'Accademia del Parnaso'. Si nutriva di satira e beffe coltissime in grado di convincere eminenti studiosi. Ci cascarono pure i fascisti.  "I suoi personaggi rappresentavano il meglio e il peggio della città: un farmacista e un noleggiatore di mignotte, un professore universitario e un analfabeta, una ricca principessina e un ammalato cronico, un avvocato e un cantastorie con cartellone, un sacerdote e un mediatore piazzista di veneri vaganti". Il suo simbolo era un'asina, il suo eroe, Pinco Pallino…

Una esperienza davvero unica che scopriamo in questo articolo dello storico, Gaetano Augello, pubblicato sul sito Siciliafan.it

Le origine e le burle storiche

Sull’origine dell’Accademia del Parnaso esistono opinioni divergenti. Secondo il barone Agostino La Lomia l’Accademia sarebbe stata fondata – al tempo della venuta in Italia di Carlo V – da due gentiluomini giunti nel 1537 al suo seguito: Gian Maria e Gian Francesco Collon o Collion. Forse spagnoli o forse portoghesi. Vedremo più avanti che il barone canicattinese avanzava questa ipotesi in chiave ironica ove si tenga conto della pronunzia alla spagnola dei due cognomi: Coglion e quindi Cogliones.

Secondo l’opinione più comune tra gli storici, e certamente più corrispondente alla realtà, l’Accademia avrebbe avuto inizio, con ogni probabilità nel 1922, in una taverna annessa all’albergo di don Ciccio Giordano sito nella Piazza Palma di Canicattì, nel largo antistante l’ex Palazzo Casucci. La piazza prese nome da una palma messa a dimora nel 1886 e sostituita con una nuova il 28 ottobre 1965.

L’origine dell’Accademia sarebbe da collegare ad una gara poetica estemporanea tra don Ciccio Giordano e il farmacista Diego Cigna che per superare l’avversario recitò malamente delle poesie in latino. Il Giordano insinuò che le poesie sarebbero state scritte dal professore Alfonso Tropia e dal filosofo Angelo Sacheli. Ne seguì una lite furibonda anche perché il farmacista Cigna osò affermare che le salsicce del poeta-cuoco don Ciccio Giordano erano più gradevoli delle poesie del medesimo. La serata tuttavia si concluse “a tarallucci e vino” e tutti si abbracciarono proclamandosi “fedeli amici delle Muse”.

Il gruppo di amici si riuniva nell’osteria del Giordano o, più frequentemente, nella farmacia di Diego Cigna in Corso Umberto. Tra i più assidui: Ciuzzu lu Cardiddaru, Carminu Squajazza e un certo Falzone detto Taganieddu. Si unirono poi al sodalizio gli arcadi avv. Salvatore Sanmartino, padre Diego Martines, dottor Gaetano Stella, avv. Francesco Macaluso, Peppi Paci, barone Agostino La Lomia ed altri. Il Parnaso è stato una simpatica e vivace espressione della vasta gamma di attività e realtà sociali di Canicattì.

I suoi personaggi rappresentavano il meglio e il peggio della città: un farmacista e un noleggiatore di mignotte, un professore universitario e un analfabeta, una ricca principessina e un ammalato cronico, un avvocato e un cantastorie con cartellone, un sacerdote e un mediatore piazzista di veneri vaganti. Tutti potevano far parte dell’Accademia. Vi entrarono in tanti ad eccezione dell’asina di padre Martines che, appunto per questo, divenne il simbolo del Parnaso. Durante una cerimonia ufficiale, alla presenza delle autorità fasciste e di molti intellettuali, si cercò di introdurre la scecca che però si rifiutò con profonda convinzione. Al che l’avv. Sanmartino commentò: “Questa è la prima volta che un somaro si rifiuta di entrare in un’Accademia. L’asina, raffigurata con ali, divenne nei documenti ufficiali il simbolo dell’Accademia. Il suo motto-epitaffio fu “terra mihi non sufficit” (la terra non mi basta). La scelta dell’asina a emblema dell’Accademia fu così giustificata da Francesco Macaluso (in arte fra Niccolò Musasca): Sì, lu sceccu, pirchì si lu sceccu è sceccu, è sceccu di nicu, è sceccu di ranni, e mori di sceccu. Caratteri veru, ‘un cangia cu l’anni, ma avi un pinseru, fidili, custanti, ca l’omu ‘mportanti di certu nun ha.

La scecca di padre Martines era vergine per statuto. Il fatto che fosse molto prolifica e frequentasse assiduamente e con visibile profitto la locale stazione di monta non aveva per i parnassiani alcuna importanza. La verginità – dicevano – più che una condizione fisica è una categoria dello spirito. Lo stemma dell’Accademia fu deliberato nella seduta del 2 luglio 1925. Si decise di affiancare all’asina un leone.

Bisognava però andare a Palermo da uno zincografo (ad Agrigento allora non ce n’erano) perdendo tempo prezioso e soprattutto dovendo pagare. Nessun problema: tra i vecchi cliché ce n’era uno che raffigurava un cane e lo si utilizzò apponendo l’avvertenza: “Questo cane è leone, a norma del decreto N. 34256 del 2 luglio 1925”. Come tutte le accademie che si rispettino il Parnaso aveva un Presidente, una sede, anzi due, anzi tre, un motto, carta intestata, moduli per l’ammissione dei nuovi soci, un eroe-simbolo e, soprattutto, uno statuto.

Presidente fu nominato il poeta-oste don Ciccio Giordano, anche perché era l’unico fra gli arcadi ad essere iscritto al Partito Nazionale Fascista. Don Ciccio adempì scrupolosamente alle sue funzioni, la più importante delle quali era quella di non parlare mai. Nel 1930 morì e durante i pubblici funerali, naturalmente fascisti, risuonò il rituale appello del federale di Agrigento: “Camerata Ciccio Giordano…” ed i presenti risposero con l’altrettanto rituale: “Presente!”. Il viaggiatore-piazzista Sanmartino commentò: “Se il Presidente da morto risponde che è presente, allora non è morto e dunque è immortale”.

Il Parnaso aveva tre sedi: la prima – Sede urbana con acqua corrente – in città. La seconda – Sede rurale con annesso orto – in un podere dell’arcade Stefano Saetta, in contrada Coda di volpe. Una terza sede, in epoca successiva, fu messa a disposizione per il periodo estivo dall’arcade Agostino La Lomia nell’isola di Capo La Croce nel mare di Taormina.

Il motto dell’Accademia del Parnaso capovolge l’esortazione incisa sul frontone del tempio di Apollo a Delfo e fatto proprio da Socrate: “Conosci te stesso”. Il Parnaso invece ammonisce: “Guardati dal conoscere te stesso: non ci guadagneresti altro che vergogna!”. Eroe simbolo del Parnaso fu Pinco Pallino, l’incarnazione dell’anti-eroe. Secondo alcuni dotti grecisti la Patria di Pinco Pallino è l’antica Beozia, terra celebre per la felice ottusità dei suoi abitanti.

Il Parnaso Canicattinese propose di erigere una statua a Pinco Pallino e diede l’esempio innalzandone una con questa epigrafe: La Patria riconoscente a Pinco Pallino ch’essendo buono a nulla nulla (oh benedetto!) fece: esempio perenne e monito urgente agli altri grandi uomini. La statua di Pinco Pallino – ammoniscono i parnassiani – deve essere l’unica con testa fissa. Tutte le altre debbono avere le teste svitabili. Un contributo alla politica dell’autarchia: 1. Le statue debbono essere tutte a mezzo busto. 2. Deve scolpirsi un mezzo busto polivalente e cioè adattabile a più teste. 3. La testa sostituita deve essere conservata in un deposito per l’eventualità che il personaggio torni in sella. Ma il vero capolavoro dell’Accademia del Parnaso è il suo Statuto. Ne ricordiamo gli articoli più significativi: Art. 1 – Il Parnaso è. Art. 2 – L’Accademia è composta di arcadi maggiori e arcadi minori. Sono maggiori i non minori e viceversa, perché le cariche si attribuiscono a ritroso. Art. 8 – Le deliberazioni dell’Accademia, per essere valide, debbono essere prese a maggioranza assoluta. Le deliberazioni prese all’unanimità sono nulle. Art. 16 – L’asina alata di “patri Decu Martines”, nomata “la Sapienza”, è dichiarata immortale, casta e pura, per statuto, se pur… sforna un asinello all’anno! Nelle riunioni assembleari sarà ammantata lussuosamente di nero, com’è prescritto per le camicie dei convenuti: e, ornata di alloro, sarà cavalcata unicamente dall’Incommensurabile Presidente.

Emendamenti allo Statuto: Il Presidente, che ha il legittimo titolo d’Immenso, ha sempre ragione ed è infallibile. E se fra quello che gli scappa detto e la Verità vi sia discrepanza, è la Verità che dev’essere corretta, non lui! Per le iscrizioni delle donne maritate occorre il consenso, anche presunto, del marito o di chi ne fa le veci. Per i minori si iscrive (quale responsabile) il padre noto. Il Parnaso, Accademia delle Scienze, Lettere ed Art, non fa ad alcun socio l’obbligo d’essere intelligente…, anzi!

Famose le burle del Parnaso. Ricordiamo le principali.

Negli anni Trenta infuriò la polemica sulla vera nazionalità di Cristoforo Colombo: genovese o spagnolo? Alla questione l’Accademia del Parnaso dedicò naturalmente, a suo modo, dotti dibattiti. Il tutto fu sintetizzato in una relazione del farmacista Cigna: “Risulta da un serio esame delle fonti e dalla documentazione che lo scopritore dell’America era denominato Cristobal Collon; non potevasi dunque aver dubbio veruno sulla sua “hispanidad” dato il carattere spagnolo dei Collones. I Collones avevano importanti relazioni con l’Italia in generale e con Canicattì in particolare; erano probabilmente dei congiunti di Cristobal i due gemelli a cui, secondo le ricerche dell’arcade barone Agostino La Lomia, è da attribuirsi la fondazione dell’Accademia.

La relazione fu inviata ai con-arcadi dell’Università di Salamanca: “Dai nostri pluricentenari archivi risulta che tutti noi arcadi abbiamo avuto come fondatori due Colliòn, venuti in Sicilia durante la dominazione spagnola. La differenza tra il termine Colòn e Colliòn è da attribuirsi al vezzo, tutto canicattinese, di dittongare la sillaba tonica (es. mezzo-miezzu, letto-liettu, anello-anieddu). Vogliate perdonare questi dotti nostrani che non possono comprendere certe peculiarità lessicali proprie di Canicattì e di qualche altro centro fortemente ispanizzato, e contate su di noi, arcadi parnassiani, per dimostrare al mondo intero che tutti i Colòn o Colliòn che dir si voglia, non possono che essere Spagnoli”.

La relazione fu inviata alle riviste specializzate e alle accademie dei due paesi. Un autorevole Istituto storico spagnolo segnalò la relazione come testimonianza di un serio rigore metodologico.

Un’altra beffa avvenne nel 1929 allorché il regime fascista istituì l’Accademia d’Italia. Non parve vero ai parnassiani di inviare un beffardo telegramma di saluto: “Questa Secolare Accademia saluta giovane consorella”. Il professor Tittoni, presidente dell’Accademia, rispose ringraziando il Parnaso per il suo alto gradimento: ”Accademia d’Italia salute illustre e antica consorella di Canicattì”.

Celebre anche la discussione su chi fosse il primo poeta italiano. Dopo ampio dibattito i 25 arcadi maggiori passarono ai voti. Ognuno di loro ebbe un voto e pertanto risultarono eletti tutti a pari merito primo poeta d’Italia. Si votò poi il secondo poeta italiano e fu eletto all’unanimità Dante Alighieri.

Ironica la suddivisione dei membri dell’Accademia del Parnaso in arcadi maggiori e minori. Erano arcadi maggiori le figure meno importanti come Pietro Cretti (un ambulante designato segretario del sodalizio), Giuseppe Bennici, Giuseppe Zagarrì, Luigi Cirami, Pietro Greco. Arcadi minori, invece, furono Luigi Pirandello, Arnoldo Fraccarolo, Marco Praga, Trilussa, Angelo Romagnoli, Angelo Musco, Giovanni Gentile, Filippo Tommaso Marinetti, Marta Abba, Benedetto Croce, Salvatore Quasimodo e, fra i più recenti, l’attore di origini canicattinesi Ben Gazzara e Leonardo Sciascia, che ricevette il diploma da Giuseppe Alaimo in occasione di uno dei premi di poesia indetti dal quindicinale “La Torre”.

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