Fenomenologia di un fuoriclasse. L’incontro stampa dopo il trionfo di New York ha rivelato un Jannik Sinner tanto uguale quanto diverso, permettendo di scoprire qualcosa di più sul suo io interiore. Sul campo di gioco, la sua faccia da poker serve a mantenere le emozioni nascoste e disorientare gli avversari, ma cosa si cela veramente dietro quella maschera?
Jannik è un caso unico di “machina sapiens” dotata di una sensibilità fuori dal comune, degna di essere studiata nelle università. Non è un caso se, di recente, ha sottolineato più volte l’esistenza di una vita reale oltre il tennis, come se la sua fosse un videogioco nel tritacarne del circuito. Per questo evita i social e le polemiche, cercando di preservare la propria umanità. È chiaro che, a 23 anni e 25 giorni, non è più solo un baby fenomeno, ma un uomo maturo. Il bacio in tribuna alla fidanzata — una parola desueta, ma lui è una persona del futuro e di altri tempi — rappresenta una sorprendente violazione della sua abituale riservatezza. Dobbiamo abituarci ai cambiamenti: la specie Sinner è in lenta ma continua evoluzione.
L’inchiesta sulla contaminazione da Clostebol è stata una prova dura, che l’ha ferito nell’anima: Jan ne ha parlato senza reticenze. Alla mezzanotte di oggi scadrà il termine per presentare appello all’archiviazione disposta dalla Integrity Tennis International Agency, e la vicenda non avrà strascichi. Ha anche spiegato perché, d’accordo con il capitano azzurro Filippo Volandri, non parteciperà alla Coppa Davis a Bologna tra due giorni: “Non sarei al massimo, se perdessi farei un danno alla squadra. Ma vorrei essere lì domenica ad abbracciare i compagni”. I soliti ignoti della rete lo accuseranno anche stavolta di oltraggio alla patria, diserzione e alto tradimento? Possibile. Così come qualcuno punterà il dito sull’assegno di 3,6 milioni di dollari incassato a New York, evocando il paradiso fiscale di Montecarlo dove risiede e si allena. C’è però un dettaglio: i premi — ricorda il giornalista Ubaldo Scanagatta, scienziato del tennis e direttore di un sito specializzato — vengono tassati alla fonte nel paese dove si gioca, e gli Stati Uniti trattengono una fetta del 35 per cento, mica spiccioli.
Ecco un florilegio delle dichiarazioni post match di Sinner, che in fondo sono il ritratto dell’artista da giovane.
L’affare doping. “Era ed è ancora tutto nella mia mente, non è che sia sparito e che passi così, in un attimo. È stato un periodo complicato. Le persone che ho attorno, che mi conoscono da quando ero ragazzino, sono state loro a permettermi di superarlo. Dico grazie alla mia famiglia, al team e a tutti coloro che mi sostengono quotidianamente. Quando scendo in campo cerco di concentrarmi al massimo, di gestire le situazioni. La squadra lavora per rendermi un giocatore migliore, ci alleniamo con questo obiettivo. Anche nella finale mi sono sforzato di tenere il focus solo sul gioco, rimanendo mentalmente su ogni punto”.
Il buio. “È difficile spiegare quello che ho passato. Non è stata solo la settimana prima del torneo, quando è venuta fuori la notizia dell’inchiesta e dell’assoluzione: si parla di mesi. Mi sono chiuso assieme alle persone che contano, cercando di capire che cosa mi stava succedendo. Ho provato ad accettarlo sapendo di non aver fatto nulla di sbagliato. Come mi sono comportato, come sono stato sul campo: chiunque mi conoscesse ha capito che qualcosa non andava. Solo a New York ho ricominciato a sentirmi meglio, non importava tanto il risultato. Questo torneo mi ha aiutato a voltare pagina. Adesso mi prendo una piccolissima pausa. Prima di oggi non ho avuto neppure il tempo di dirmi: ok Jannik, hai fatto un buon lavoro. Ma vincere è stato fantastico”.
Io e gli altri. “È stato complicato anche solo cominciare il torneo, la pressione da gestire era tanta. Non mi riferisco al gioco: sento come un privilegio aver disputato la finale sull’Arthur Ashe. Avevo tanti dubbi, tanti pensieri in testa. Il pubblico qui è stato splendido, anche i tifosi dall’Italia. In generale la reazione dell’ambiente alla faccenda del doping è stata positiva, anche se nello spogliatoio ci sono state opinioni diverse. Questo accade sempre: non posso farci niente, ho spiegato chiaramente come sono andate le cose”.
Gli affetti. “Ho dedicato pubblicamente la vittoria a mia zia perché è una persona speciale. Quando i miei genitori lavoravano tutto il giorno e io magari dovevo fare qualche gara di sci, ci andavo con lei. Era con me d’estate durante i giorni liberi dall’allenamento. Ora sta male. Le cose purtroppo capitano, la vita reale è diversa dal mondo del tennis. Noi viaggiamo di continuo e non riusciamo a passare del tempo con le persone che amiamo davvero: vorresti che fosse di più ma non è possibile. Non è tutto perfetto”.
L’etica del lavoro. “Dall’Australian Open fino agli Stati Uniti è stata una bella corsa. Vincere il primo titolo Slam dell’anno ti dà fiducia, però dall’altra parte sai che il lavoro non finisce mai: tra un po’ si parte per la Cina, ho voglia di giocare lì. Devo dire un grande grazie al mio team, perché proviamo sempre a fare cose diverse dal punto di vista tattico, capire come giocare meglio contro alcuni avversari, lavorare su certi colpi. Ho passato tanto tempo in palestra, perché fisicamente c’è ancora molto da migliorare. Tecnicamente devo fare meglio: in finale ho sbagliato due schiaffi al volo e ho servito così così. Sono felice nel vedere arrivare nuovi campioni. La rivalità fa crescere: ci sono e ci saranno sempre giocatori che mi renderanno migliore come tennista. Nel momento in cui ti battono, devi capire perché e trovare il modo di prenderti la rivincita. Sono tutti sacrifici che fai per il futuro: nella mia testa so di non essere perfetto, non lo sarò mai. Si cerca di limare e aggiungere. Voglio poter dire dopo, al termine della carriera, di aver fatto tutto il possibile per arrivare al mio limite. Il percorso conta più del risultato”.
È l’anatomia di un genio, teniamocelo stretto.