C’è ancora domani. Senza giocare il suo miglior tennis, Sinner ha battuto Jack Draper in tre set: 7-5, 7-6, 6-2, missione compiuta in tre ore e passa di un match sporco e sofferto. Il titolo dell’US Open ora è vicinissimo, manca l’ultimo passo. Sul cemento dell’Arthur Ashe — ore 14 di New York e le 20 in Italia — troverà il californiano Taylor Fritz, bravo a superare Tiafoe in rimonta nel derby-maratona di cinque set. Sarà la prima finale per entrambi a Flushing Meadows, ma è inutile girarci attorno: Jannik parte favorito. Non ha brillato contro Draper e i motivi sono vari. “È stata una partita molto fisica, psicologicamente difficile. Ho cercato di farlo lavorare, mi sono procurato tante occasioni senza sfruttarle. Ma sono sempre rimasto a fuoco”, ha spiegato ai microfoni con la consueta lucidità il protagonista.
Alla resa dei conti quel che conta è il risultato, come dicono banalmente quelli della domenica. Mai il tennis italiano aveva avuto un giocatore in finale a New York, giusto Corrado Barazzutti nel 1977 e Matteo Berrettini nel 2019 erano arrivati a un metro dal traguardo respinti rispettivamente da Connors e Nadal. È l’ennesimo primato battuto dal ragazzo meraviglia, una striscia che viene da lontano e nasce da una scommessa. A un certo punto del percorso ha scelto strade nuove, uscendo dalla zona di conforto per avventurarsi in terre incognite: lo scopo era “diventare migliore come giocatore e come persona”, parole sue. C’è pienamente riuscito. “Ci vuole tempo, non è una magia”, ha spiegato in sala stampa. “Bisogna passare attraverso certi momenti. Ho perso partite facendo le cose giuste e ne ho vinte altre sbagliando. Ogni volta parli con la tua squadra e ti rimetti a lavorare per cercare il giusto equilibrio: i dettagli fanno la differenza ad alto livello. Devo migliorare nel gioco di volo e andare più spesso a rete. Sono sicuro di poterlo fare”. È un avviso ai naviganti.
L’inglese si è rivelato interlocutore problematico. È stato solido e resistente, coraggioso e fiero, capace di restare attaccato alla partita oltre le aspettative. Era arrivato in semifinale senza lasciare per strada neppure un set, il super servizio lo autorizzava a sognare il colpo grosso. Sinner si è preparato misurando l’ultima sessione di allenamento sull’avversario mancino — curiosamente lo è solo quando gioca, altrimenti è un destro naturale. Aveva chiesto allo sparring partner sequenze intensive di rovesci tagliati e dritti carichi di spin da ribattere, perché Draper non è Medvedev: predilige il servizio a uscire e il pressing immediato, evitando gli scambi eterni da fondo campo. Tuttavia ha saputo reggere anche sul terreno preferito dal rivale, accettando la lotta a viso aperto.
L’avvisaglia di quel che sarebbe successo s’è avuta già nel primo game: Jannik a comandare, Jack a sistemare la faccenda con la prima palla pur con qualche doppio fallo da sinistra. Il copione così definito è andato in scena fino al settimo game, cruciale come i saggi del gioco insegnano: Sinner ha trovato la fessura dove infilare il passante ed è scattato 4-3. Tutto fatto? Neppure per idea. L’altoatesino ha avuto un passaggio a vuoto e si è ritrovato 0-40 malgrado il vantaggio delle palle nuove, sbagliando un paio di dritti per lui elementari. Ha provato a ricucire lo strappetto ma è arrivato il controbreak. Draper sullo slancio è salito 5-4: situazione delicata, risolta dal rosso con un ace. La capacità di dare il meglio nei momenti importanti è emersa puntuale nel game successivo, durato un’eternità e punteggiato dai doppi falli dell’inglese. Il sesto del match gli è costato un nuovo break; Jannik ha tenuto alta la concentrazione chiudendo 7-5 dopo 57 minuti.
Un brutto colpo per il giovanotto venuto da Sutton, sobborgo londinese, che in apertura di secondo set ha offerto l’ennesima palla break, sventata grazie alla stampella del servizio. È stata la costante del match: Jan semina senza raccogliere, Jack tiene duro faticando e spendendo. Il coach in panchina s’incarica del sostegno attivo: “Sinner sta dando il massimo, resta tranquillo e colpisci”, consiglia. E’ una bugia a fin di bene, perché l’azzurro dà l’impressione di poter alzare i giri del motore in qualunque momento. Il problema è che stranamente non lo fa: poco attento, poco preciso, poco brillante, è lui a tenere a galla l’inglese che chiama il pubblico a raccolta. Gli errori fioccano: un episodio ne chiarisce il motivo. Alla fine di un intenso scambio, Draper vomita per le condizioni di gioco estreme. La cappa di umidità è spaventosa, diventa difficile perfino respirare. Jack assicura all’arbitra che può andare avanti, la battaglia s’interrompe però per il secondo colpo di scena: nel recuperare una palla impossibile, Sinner cade appoggiando violentemente il polso sinistro a terra. Fiato sospeso, intervengono i fisioterapisti per l’uno e per l’altro e quando si riprende Sinner va a servire sul 4-5. Non sbaglia e il match approda al tiebreak.
S’era detto che nei frangenti che contano viene fuori la sua forza mentale? Quattro punti di fila, frutto di un martellamento impressionante, e due servizi agli angoli issano Jannik sul 7-6: prova a prendermi. Il terzo set è la cronaca di una resa annunciata, che solo l’orgoglio dell’avversario ritarda. Arriva la spallata del 4-2, arriva l’allungo definitivo, arriva il match point: 6-2 per ko tecnico. The end. L’abbraccio finale è lo specchio di due amici che si conoscono bene, si stimano, mangiano la pasta cucinata da Sinner. Tre settimane fa hanno giocato il doppio assieme a Montreal. Proprio il doppio, un’era geologica fa, era stato l’occasione della prima sfida. Raccontata scherzando da Jack, 22 anni e dieci mesi contro i 23 compiuti a ferragosto dal fuoriclasse di San Candido: “Ci siamo incontrati in un torneo under 18. Io e il mio compagno non lo conoscevamo, francamente non pareva granché. Abbiamo tirato sempre su di lui e abbiamo perso. Da lì le cose sono cambiate in fretta”. Tanto in fretta che Sinner domani giocherà la sua seconda finale Slam in carriera da numero uno del mondo. Il lavoro non è ancora finito.