Perdere non piace a nessuno, ma può accadere perfino che qualcuno si lamenti per un successo che fa storia. Sono le due facce del jet tennis, il luna park intercontinentale diventato oggi un girone d’inferno. Business is business, lo sappiamo. Ma la sensazione è che il meccanismo sia sfuggito al manovratore. I giocatori d’élite guadagnano tantissimo, addirittura una fortuna se ai premi si aggiungono i soldi degli sponsor e il ruolo di testimonial extra sportivo. Ma a che prezzo. Spietata è soprattutto la lotta per entrare nei primi cento, soglia fatidica del benessere — se effimero o duraturo si vedrà — per gli aspiranti campioni.
Quelli che sgomitano nelle retrovie sono disposti a buttarsi nel tritacarne ignorando le precauzioni, pur di approdare magari al tabellone di uno Slam: si gioca sempre e dappertutto, anche a notte fonda, saltando da un aereo all’altro perché lo show deve comunque andare avanti. Superfici diverse fra terra rossa o verde, cemento, erba, campi all’aperto o indoor, condizioni climatiche spesso estreme, palline che corrono di più o di meno mettendo gli interpreti a rischio frequente d’infortunio. Sono pochi quelli che riescono a evitare la sosta ai box per cambiare le gomme e sostituire i pezzi usurati. Però c’è dell’altro che orbita attorno alla ruota della fortuna, ed è un’oscurità ancor più pericolosa.

“I hope your mom dies soon”, spero che tua madre muoia presto. È uno dei messaggi ricevuti negli ultimi mesi da Caroline Garcia, talento puro che non attraversa un momento felice della carriera. A ridosso dei 31 anni, con un best ranking da numero due del mondo, la francese è arretrata alla casella trenta per aver perso alcune partite in serie. L’ultima due giorni fa all’US Open, battuta seccamente dalla messicana Zarazua che tecnicamente non vale quanto lei. È un periodo no, che capita anche se vanti nel palmares tre tornei mille e il trionfo alle Finals del 2022. “Dopo una dura sconfitta ti senti già emotivamente a terra, poi arrivano questi messaggi terribili che fanno male. Ne ho ricevuti a centinaia. Sono una ragazza normale che lavora sodo e fa del suo meglio, dovrei avere gli strumenti per difendermi dall’odio. Ma non va affatto bene”, è la lucida denuncia affidata alla rete. Che cosa c’è dietro? È la stessa Caroline a spiegarlo. “I tornei — dice — collaborano con le società di scommesse, che attirano personaggi instabili. Questo è malsano. Chi vede svanire i soldi della puntata si vendica distruggendo la vita a un giocatore, senza che le piattaforme dei social media lo impediscano malgrado i progressi dell’intelligenza artificiale”.

C’è chi è più esposto. “Mi preoccupo quando penso ai giocatori più giovani che stanno arrivando, che non hanno un carattere così forte. L’odio può colpirli duramente. Si può pensare che non faccia male, ma lo fa. Siamo umani. Certa gente non dovrebbe avere la libertà di esprimersi anonimamente”. I tennisti sono tra i bersagli preferiti dei conigli da tastiera. “Sei un venduto e un corrotto, devi morire all’inferno”, è uno dei post più gentili ricevuti da Andrea Vavassori, ragazzo coraggioso reo di aver perso nelle qualificazioni di Stoccolma contro lo sfavorito libanese Hassan. “Sono arrivato alle 4 del mattino da Malaga, ho testato le condizioni mezz’ora prima di scendere in campo, giocando bene contro un avversario davvero bravo che ha merito di vincere un match combattuto fino alla fine. Questo è ciò che merito”, si è sfogato in rete.
Era capitato lo stesso a Lorenzo Musetti, che l’anno scorso ha chiesto pubblicamente di lasciare in pace i suoi familiari, regolarmente insultati e minacciati dopo ogni sconfitta. Non si vedono rimedi all’orizzonte. L’appello di Garcia è esemplare: “Tu che la prossima volta vedrai il post di un atleta o di chiunque altro che abbia perso una partita, pensa che lui o lei ce la sta mettendo tutta”. Ricalca la frase sul profilo whatsapp del musicista Bob Messini, che vale per ciascuno di noi: “Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla, sii gentile sempre”. In un mondo appena decente sarebbe l’aspettativa minima.
Purtroppo non è così. Nel 2001 l’inglese Emma Raducanu, mirabile miscuglio di etnie, conquistò gli US Open da numero 150 della classifica frantumando una catena di record. Quel trionfo precoce l’ha travolta. Non è mai riuscita a ripetersi neppure lontanamente, fra ripetuti cambi di coach, infortuni e fiducia sottozero. Ci ha riprovato stavolta, eliminata al primo turno dall’americana Kenin, altra ex baby prodigio. È uscita dal campo piangendo: “Sento una enorme tristezza, volevo far bene con tutte le mie forze e non ci sono riuscita”, ha mormorato in sala stampa. La pressione mediatica, le aspettative, l’influenza nefasta degli sponsor l’hanno messa al tappeto. Come è accaduto alla giapponese Naomi Osaka, che conquistò Flushing Meadows nel 2018 e gli Australian Open 2019 e 2021 prima di rimanere schiacciata dalla responsabilità precipitando nella depressione. “A volte vorrei non aver vinto qui a New York”, è stata l’amara confessione di Raducanu. Quindi l’atto d’accusa: “Il mondo che circonda il circuito non è un posto sicuro. Devi sempre stare in guardia con gli squali là fuori. L’industria mi vede come un salvadanaio, ma la cosa che amo è giocare a tennis. Vorrei tanto tornare indietro”. L’impossibilità di essere normali è un fine pena mai.