Mentre Pelé, il monarca assoluto del football internazionale, soffre in ospedale per l’aggravarsi di un tumore che ha colpito fegato e reni, il Brasile ai mondiali in Qatar travolge la Corea del Sud 4-1 e si qualifica per i quarti di finale.
Una vittoria dolce per “O Rey”, che a 82 anni rimane una leggenda conosciuta e rispettata anche da chi non è appassionato di football.
Edson Arantes do Nascimento, da tutti conosciuto come Pelè, lotta da tempo contro due tumori maligni. Nell’autunno del 2021 fu operato all’intestino. Ma le metastasi si sono poi estese. Nei giorni scorsi una crisi improvvisa lo ha costretto a un ricovero d’urgenza nell’ospedale Alberto Einstein di San Paolo, da dove si è diffusa la voce che il suo fisico non risponderebbe più alle chemioterapia. Ma la tempra di combattente resta indomita. “Sono forte”, ha fatto sapere dalla clinica. “E con molte speranze”.
Sono giorni in cui il Brasile intero, ipnotizzato dagli esordi in Qatar dove la Nazionale verdeoro ambisce a conquistare la sua sesta Coppa, ha diviso le attenzioni fra l’incedere dei beniamini calcistici con qualche intoppo (infortunio di Neymar, sconfitta imprevista contro il Camerun) e le sorti dell’eroe nazionale, l’unico calciatore al mondo che è riuscito a vincere tre titoli mondiali. Tite, il commissario tecnico brasiliano (di origine italiana), è stato il più sollecito a fargli coraggio: “Auguro tanta salute al nostro più grande rappresentante, l’extraterrestre che si è fatto terrestre”.
Lo stato precario di Pelè, monumento nazionale, ha influito inevitabilmente anche su una squadra di elevatissime potenzialità (è la favorita alla vittoria finale) ma anche soggetta a sbalzi di tensione emotiva. Sempre oscillante, come un po’ tutto il paese, fra l’euforia e lo smarrimento. Il più esposto sembra Neymar, l’attuale bandiera del Brasile, cresciuto nel Santos (per poi approdare in Europa) che per diciotto anni è stata la casa di Pelè prima dell’appendice di prepensionamento fra il ’75 e il ’77 nei Cosmos di New York.
Le allarmanti notizie provenienti da San Paolo hanno di fatto coinvolto nell’ansia tutta l’organizzazione del mondiale, Le immagini trionfanti di Pelè sono state proiettate dai led fosforescenti sulla facciata della Aspire Tower di Doha. Con sovrapposta la didascalia: “Guarisci presto”. Già nel 2000 “O rey” fu proclamato “calciatore del secolo”. Un titolo onorifico avallato da numeri mostruosi: oltre l’esclusiva dei tre titoli mondiali si è aggiudicato due Coppe Libertadores (la Champions sudamericana) e due trofei intercontinentali. Come cannoniere è uno dei più prolifici di tutti i tempi: 767 in 821 partite ufficiali (quasi uno ad incontro), 1283 in 1363 match se si tien conto anche delle amichevoli. Superato recentemente solo dal bulimico Cristiano Ronaldo, forse dal connazionale Romario (a seconda dei conteggi) e da tal Josef Bican, un attaccante cecoslovacco che negli anni Trenta mise a segno 805 gol.

Pelé è nato a Très Coracoes, una cittadina nel Minas Gerais a metà strada fra Belo Horizonte e San Paolo. Figlio di un ex calciatore rimasto nell’anonimato e di una casalinga, si è trasferito da bambino con la famiglia a Bauru, un centro di oltre 300 mila abitanti a ridosso della metropoli paulista. Come recentemente documentato in un film sulla sua vita, è cresciuto in una favela sbizzarrendosi a giocare a pallone negli spazi polverosi con una sfera di stracci. Fin dalle prime estemporanee esibizioni si capiva che era il più dotato in quella ciurma di scugnizzi. La svolta venne nel 1950 quando dal tetto di una baracca fatiscente visse alla radio il dramma del Maracanazo, la storica disfatta a Rio nell’incontro decisivo del mondiale ’50 contro l’Uruguay. Un ko che mise in ginocchio l’intero Brasile provocando un’ondata di suicidi. Fu allora che fece una promessa al padre: avrebbe fatto di tutto per riscattare quell’umiliazione.
Ma il processo di maturazione non fu una passeggiata. Notato da un talent scout in una sfida amatoriale a cui partecipava anche Altafini, entrò nelle squadre giovanili del Santos. All’inizio il suo talento istintivo fu però imbrigliato. Dopo la tremenda batosta del Maracanazo, imputata anche all’ingenuità di un gioco sì spettacolare ma troppo anarchico, i tecnici brasiliani cercarono di imporre una maggior disciplina tattica che andava a discapito dell’estro. Ma le virtù funamboliche e la classe cristallina di Pelé erano troppo lampanti per poter essere soffocate. Pelè si impose di autorità per le sue qualità superiori. E impiegò solo sette anni per onorare la promessa del riscatto. Appena diciassettenne, nel ’58 fu determinante per la conquista in Svezia della prima Coppa brasiliana. Segnò prima una tripletta alla Francia e poi una doppietta in finale alla Svezia (5-2 il punteggio finale). Poi rivinse altre due volte il mondiale: nel ’62 in Cile, anche se non giocò la finale con la Cecoslovacchia (3-1) per un grave infortunio nella prima fase del torneo. E al ’70 in Messico contro l’Italia (4-1) facendo salire a 12 il numero dei gol segnati nelle sue partecipazioni alla Coppa del mondo.
Dopo il ritiro (a 37 anni) diventò un ambasciatore itinerante del calcio. E negli anni Novanta, memore dei difficili trascorsi giovanili e animato da uno spirito di riscatto per il popolo delle favelas, accettò l’incarico di ministro dello Sport nel governo di Fernando Henrique Cardoso.
Il suo trono di “rey” non ha mai vacillato. Neanche per le polemiche con Maradona e per il dilemma su chi fra i due sovrani del pallone sia stato il miglior calciatore di tutti i tempi. Entrambi hanno legioni di agguerriti fans. Ma appartenendo a epoche diverse (Pelè furoreggiò fra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi dei Settanta, Maradona per tutti gli anni Ottanta) è impossibile stabilire una gerarchia. Anche nell’indole erano nette le differenze. Riflessivo e moderato Pelè. Generoso ma in preda ai demoni Maradona, scomparso nell’autunno del 2020 a soli 60 anni. Certo, anche Pelé non riusciva sempre a contenersi. Il suo limite era la vanità. Un giorno se ne uscì con una rivendicazione particolarmente enfatica. “Sono nato per il calcio, come Beethoven per la musica e Michelangelo per la pittura”.
Maradona lo attaccò accusandolo di pensare solo alla gloria personale e non al calcio come veicolo di sviluppo sociale. “O rey” replicò che “era tutta invidia”. Ma l’anno dopo fu invitato proprio dal “pibe de oro” a una trasmissione televisiva a Buenos Aires (“La notte dei 10”, il loro numero di maglia, il numero dei grandi campioni). Diego abbracciò platealmente il rivale riconoscendolo come “O rey”. Al fondo c’è sempre stata una grande stima reciproca. Come si addice fra i giganti. Anche se nessuno dei due sarebbe stato mai disposto ad ammettere la superiorità dell’altro.