Il 29 novembre, fra meno di una settimana, la Nazionale di calcio iraniana (soprannominata confidenzialmente in anglo-iraniano Team Melli) potrebbe essere costretta a salutare il Qatar e far ritorno a casa.
La dura sconfitta patita all’esordio con l’Inghilterra (6-2) è un handicap superabile solo con due imprese contro i prossimi avversari: il Galles e poi gli Stati Uniti, confronto che in altre epoche avrebbe avuto anche significativi risvolti di geopolitica. Più che per i limiti tecnici dei calciatori iraniani si è discusso soprattutto per il coraggio della loro protesta silenziosa. Il rifiuto di cantare l’inno nazionale, accompagnato dalla mestizia degli sguardi rivolti verso il vuoto.
La rappresentazione di un afono urlo di dolore contro la durissima repressione condotta in patria dal regime degli ayatollah per la rivoluzione delle donne. Che rivendicano i diritti umani più elementari (come la libertà di non imprigionare nei veli i capelli) dopo la morte il 16 settembre di Mahsa Amini che fu pestata a sangue per una ciocca fuori posto.
Cosa accadrà ai giocatori della Nazionale una volta rientrati a casa? Dalle poche notizie che filtrano dall’Iran risulta che nelle proteste contro il regime hanno perso la vita circa 400 manifestanti e sono finiti in carcere in oltre 15 mila.

La ribellione muta di Doha ha incontrato vivi consensi sugli spalti dello stadio ma anche bordate di fischi da parte dei sostenitori degli ayatollah. E nelle città iraniane ha ovviamente alimentato l’orgoglio della rivoluzione. Ma ha anche accentuato il livello della reazione: con i fondi violenti dei giornali di regime contro “i traditori” e i raid dei basiji (le forze paramilitari religiose) che giravano strombazzando lungo le strade delle città per festeggiare ogni gol dell’Inghilterra. Segno di un paese spaccato e di un gruppo di potere arroccato nella strenua difesa di valori islamici fuori del tempo e deciso a tutto per non cedere di un millimetro nella crociata della virtù.
Anche se la censura oscura le reali dimensioni della rivolta sembra che la teocrazia della Guida Suprema Ali Khamenei, che pure in passato ha superato massicce contestazioni, non sia mai stata così in difficoltà. C’è un elemento nuovo nella sfida. I manifestanti non cercano lo scontro fisico. Non hanno armi. Protestano a mani nude. Si affidano allo spirito gandhiano. Mentre il governo agisce nello stile feroce di sempre: massacrando, torturando, uccidendo. Come se chi chiede semplicemente il rispetto dei diritti umani fosse niente meno che un cancro da estirpare. In una concezione parossistica perfino dell’integralismo più estremo.
E, allora, cosa accadrà in patria ai calciatori ribelli? Al loro allenatore Carlos Queiroz sicuramente nulla. È di nazionalità portoghese e al massimo sarà licenziato. Nel mirino, più di altri, sono i cinque calciatori che militano nei campionati stranieri. In testa Sardar Azmoun, il talentuoso attaccante che gioca in Germania nel Bayer Leverkusen. E anche il più schierato nella difesa dei diritti delle iraniane.
“Essere cacciato dalla Nazionale”, scrisse sui social allo scoppio della rivolta, “sarebbe un piccolo prezzo da pagare rispetto anche a un solo capello delle donne. Non ho paura di essere imprigionato. Se questi assassini sono dei musulmani Dio faccia di me un infedele”. Una ripulsa così pesante della teocrazia da attirarsi, se fosse stato un cittadino normale, una sicura condanna a morte.

Ma per via della grande popolarità Azmoun, che ha milioni di followers come il Maradona d’Asia Ali Karimi (ex Bayern, oggi allenatore in aspettativa) e Mehdi Taremi (stella del Porto), non era un bersaglio facile neanche per un regime così intransigente. E dopo aver minacciato la sua esclusione dal mondiale la Federazione, su pressioni di Queiroz, ha deciso di sorvolare concedendo l’okay per la sua convocazione all’ultimo minuto. I vertici del calcio iraniano, pur insediati come in tutte le istituzioni pubbliche dal regime, già in passato hanno dato qualche segno di flessibilità. Come quando qualche tempo fa abolirono il divieto per le donne di accedere come spettatrici agli stadi, confinando però la loro presenza in appositi settori.
Chi gioca in campionati stranieri potrebbe anche non far ritorno in patria. Ma esposti a ritorsioni sarebbero in ogni caso i parenti. Con vessazioni. O confische di beni. Come è avvenuto in passato.
Per gli iraniani che militano nel torneo nazionale ci sono ovviamente più rischi. Soprattutto per il capitano Ehsan Hajsafi che alla vigilia del mondiale dichiarò che il Team Melli sarebbe stata “la voce del suo popolo”. I precedenti non sono incoraggianti. E’ vero che l’unica morte per proteste di un calciatore – Habib Kabiri – pare risalga all’84. Ma proprio nei mesi scorsi è finito in carcere per aver difeso le donne una leggenda del calcio iraniano come l’ex attaccante e oggi allenatore Ali Daei. C’è infine un drappello di nazionali che, pur muti all’esecuzione dell’inno, hanno poco da temere. Sono quelli che espressero più empatia al presidente Ebrahim Raisi, venuto a salutarli prima della partenza. Ogni regime, si sa, ha in tutti i settori i suoi devoti.
Dipenderà anche molto dai risultati. Se l’Iran approderà almeno agli ottavi di finale, non è da escludere che la teocrazia adotti in nome dell’orgoglio nazionale un atteggiamento di clemenza o addirittura di perdono. Che non servirà ovviamente a frenare una rivolta che si sta trasformando in insurrezione.
Comunque vada, il coraggioso silenzio del Team Melli passerà alla storia come l’atto più forte in difesa dei diritti umani del mondiale in Qatar. Manifestazione in cui si discute sì dei 6 mila morti fra gli immigrati impiegati nella costruzione degli stadi e quasi ridotti in schiavitù. Ma ormai quasi accademicamente. E la Fifa non permette nemmeno l’esibizione delle fascette arcobaleno per i diritti dei gay bollati brutalmente dalle autorità di Doha come “disturbati mentali”.