Se un marziano sbarcasse oggi a Doha, digiuno come sarebbe di usi e costumi terreni, manifesterebbe un’ovvia curiosità per un mondo nuovo ma non si sorprenderebbe più di tanto.
Il vero marziano oggi in Qatar è il turista innamorato del pallone che, spingendosi fino alle dune desertiche di quella minuscola monarchia, si ritrova in un ambiente che è talmente lontano da ogni tradizione calcistica da lasciarlo sbalordito.
Il mondiale in Qatar (20 novembre-18 dicembre) è il primo che va in scena nel mondo arabo, dove il football è ancora a livello di sottosviluppo. Il primo che si disputa in autunno, data imposta dalle condizione climatiche che ha prodotto la sospensione per quasi due mesi di tutti i campionati. Il primo in un paese di dimensioni ridotte (poco più di due milioni di abitanti, quasi tutti concentrati nella capitale). Il primo che si gioca in una sola città, Doha, in otto stadi distribuiti nel raggio di appena 60 chilometri.
Arriva preceduto da velenose polemiche su un’assegnazione controversa, su cui gravano pesanti sospetti di corruzione. Rinfocolate dalle condizioni quasi schiavistiche in cui per anni sono stati costretti gli immigrati ingaggiati come manodopera per la costruzione degli stadi: 250 dollari al mese e passaporto trattenuto dalle autorità per lunghissimi turni di lavoro. Con un tragico bilancio, sia pur non ufficialmente accertato, di quasi seimila morti.
L’esplosione dei prezzi sta scoraggiando l’afflusso dei tifosi (250 euro a notte per un pario di letti in prefabbricati spartani, mille euro per un hotel a 5 stelle). Si era calcolato l’arrivo di due milioni di visitatori. Ma i primi segnali sono scoraggianti. Doha non ha molto da offrire: un po’ di grattacieli, un mare non molto adatto ai bagni, qualche escursione nel deserto circostante. Niente svaghi estranei al pallone. Niente vita notturna. Vietata secondo le più rigide prescrizioni islamiche perfino la birra. Vietati gli accenni alle libertà sessuali: per l’ambasciatore del mondiale ed ex calciate Khalid Salman l’omosessualità è solo “un danno mentale”.
Per riscaldare l’atmosfera la dinastia Al Thani (al potere dal 1971, anno dell’indipendenza dell’emirato) ha assoldato fra i residenti esteri schiere di finti tifosi che per un salario mensile di 700 euro e un pacchetto di ingressi gratuiti negli stadi simulano di parteggiare per le squadre più forti. Una sorta di Truman show del pallone. Ma non si bada a spese per trasmettere del piccolo Qatar un’immagine di straordinaria opulenza. Sul mondiale sono stati investiti 220 miliardi di dollari (la cifra più alta di tutti i tempi), fra infrastrutture e stadi. Grazie alla straordinaria ricchezza di un paese che un tempo viveva sulla coltivazione delle perle e oggi vanta una delle maggiori riserve mondiali di gas. Potenza energetica. E anche politica con le sue influenze nei labirintici equilibri del Medio Oriente. E anche mediatica grazie ad Al Jazeera. E anche sportiva con la proprietà in Francia del Paris Saint Germain.
I mondiali per gli Al Thani rappresentano la definitiva consacrazione. Nella cerimonia inaugurale si è molto insistito sul concetti di integrazione. Contando sul fatto che se gli dei del pallone saranno benevoli e la manifestazione decollerà tutte le polemiche sui diritti civili verranno spazzate via dai venti impetuosi delle emozioni. Favorito, per antonomasia, è il Brasile. In subordine, la Francia, l’Argentina, la Spagna, l’Inghilterra, la Germania, il Portogallo. L’Italia campione d’Europa, com’è noto, non c’è. Eliminata surrealmente dalla Macedonia del Nord nella primavera scorsa. Bizzarrie del pallone, che meraviglierebbero anche il marziano vero.
Chi scrive ha seguito per motivi professionali dieci mondiali dal vivo. Dal 1974 nella Germania allora ancora dell’Ovest al 2014 in Brasile. Con l’unica interruzione del Sudafrica (2010) dove l’Italia fu subito eliminata. E con l’esclusione dell’ultima edizione in Russia dove come oggi in Qatar gli azzurri non furono ammessi. Dalla galleria dei ricordi si può ritagliare un diagramma dell’evoluzione non solo calcistica ma anche politica e di costume maturata a cavallo fra due secoli.
GERMANIA OVEST, 1974 – L’immagine più forte è legata all’ira funesta di Chinaglia che dopo essere stato sostituito durante l’intervallo da Boninsegna nella partita contro la Polonia sfoga il suo nervosismo scagliando bottiglie contro i muri dello spogliatoio. Alla fine del primo tempo a Stoccarda l’Itala è sotto di due gol. La sconfitta, dopo la facile vittoria su Haiti (3-1) e il pareggio con l’Argentina (1-1), significherebbe eliminazione. Il commissario tecnico Ferruccio Valcareggi, (aveva già vinto un europeo nel 1968 ed era arrivato terzo in Messico nel 1970, l’estate della mitica Italia-Germania 4-3) tenta il tutto per tutto. Era già stato contestato in mondovisione con un plateale gesto da Chinaglia che all’epoca era una sorta di totem: aveva appena portato la Lazio alla conquista del primo scudetto e aveva un temperamento sanguigno, da vero leader. Ma sul palcoscenico mondiale stentava a imporre il suo fiuto di goleador. Neanche l’innesto di Boninsegna riuscì a ribaltare il risultato. Capello riuscì solo a ridurre le distanze a pochi minuti dalla fine.
Era un’Italia divisa in clan. Dominava quello della Lazio, fresca vincitrice dello scudetto, composto da giocatori eccentrici e umorali, tenuti a bada dalla saggezza dell’allenatore Tommaso Maestrelli che sul campo sapeva come incanalare al meglio le pulsioni un po’ anarchiche. Ma neanche il suo arrivo a Stoccarda bastò a calmare le acque. Valcareggi, dopo una gloriosa carriera, uscì di scena.
Fu il primo mondiale militarizzato. La Germania Ovest era ancora sotto choc per il massacro compiuto dai palestinesi contro gli israeliani nelle Olimpiadi di Monaco di Baviera due anni prima. I controlli erano rigorosissimi. E l’atmosfera era più da guerra fredda che da festa del calcio. Vinsero il loro secondo titolo mondiale i padroni di casa battendo 2-1 in finale la favoritissima Olanda, inventrice del calcio totale.
ARGENTINA, 1978 – L’unico mondiale ospitato da una dittatura nel dopoguerra (il precedente risale al 1934 nell’Italia di Benito Mussolini). Guidata dallo spietato generale Jorge Videla, responsabile principale dei 40 mila morti della guerra suja. Lo stadio della finale, Il Monumentale di Buenos Aires, distava meno di un chilometro da uno dei più feroci centri di tortura. L’atmosfera era cupissima: polizia ad ogni angolo della città, rigidissimi controlli di sicurezza. Contatti molto prudenti con gli argentini che non si facevano mai sfuggire una parola contro il regime. I più fanatici (o più spaventati) si spingevano a stigmatizzare noi italiani per l’atteggiamento a loro giudizio troppo morbido con cui contrastavamo il terrorismo delle Brigate Rosse.
Non aiutavano neanche le condizioni meteorologiche: giugno, mese in cui è sempre cominciato il mondiale, in Argentina è pieno inverno. Freddo, pioggia, umidità. In compenso la giunta militare aveva dispiegato tutte le sue risorse per ben figurare. Avevano attrezzato centri stampa funzionali, con una rate efficiente di numeri telefonici provvisoriamente presi in prestito dall’utenza privata. Quando chiedevi il numero di telefono a un argentino notavi subito nel suo sguardo un lampo di ironia: “E’ possibile che del mio numero stia usufruendo tu”. L’organizzazione negli stadi era curata nel dettaglio. L’aspetto gentile dell’ospitalità era affidato a graziosissime hostess plurilingui, perlopiù figlie della nomenclatura.
L’Itala partì subito bene. Nel girone eliminatorio batté perfino l’Argentina che avrebbe poi vinto il suo primo titolo. Fugando tutte le perplessità iniziali della stampa sulla gestione di Enzo Bearzot. Dopo i primi successi il cantante Luciano Tajoli, in un ricevimento al consolato italiano, attaccò lo scetticismo dei cronisti modificando le strofe di una sua nota canzone: “Abbiamo dei campioni con dei grossi coglioni: scrivilo giornalista italian”.
L’Italia mancò il traguardo della finale, perdendo 2-1 nel secondo turno contro l’Olanda. Sul banco degli accusati il portierone Dino Zoff per essere scattato in ritardo su due tiri da fuori area finiti in rete. Perdemmo poi anche la finale per il terzo posto (2-1) contro il Brasile.
Nel girone per la qualificazione alla finale l’Argentina si impose in maniera poco limpida ai danni del Brasile. Giocò la partita decisiva conoscendo già il risultato dei rivali e sapendo che avrebbe dovuto vincere con almeno quattro gol di scarto (ne segnò sei) contro il Peru che schierava un portiere nato in Argentina. Nell’atto conclusivo batté poi nei tempi supplementari per 3-1 l’Olanda, beffata per la seconda volta nonostante la sua rivoluzione tecnico-tattica che segnò una svolta nella storia del football. Al terzo gol un collega argentino che sedeva sul mio lato destro ,in preda al delirio, per poco non mi staccò un braccio. Urlava in trance “el grande sueno” e nel contempo si aggrappava al mio arto cercando di portarlo violentemente verso di sé. Non era un atto di aggressione. Voleva solo rendermi fisicamente partecipe della sua gioia. Riuscii a sganciarmi gridando a mia volta: “Il sueno è tuo, ma il braccio è mio”. Non capì e rimase in estasi.
Buenos Aires, la “ciudad que nunca duerme”, festeggiò tutta la notte. Intorno all’obelisco si ballò ininterrottamente sui tetti delle auto. La mattina dopo avvertimmo i funzionato della Fiat che le macchine gentilmente concesse in uso gratuito alla stampa italiana erano tutte da rottamare. Dal tripudio dell’intera nazione i militari si sentirono ancor più autorizzare a compiere le loro stragi.
SPAGNA, 1982 – E’ il mondiale (il primo a 24 squadre) del trionfo azzurro. Della consacrazione di Paolo Rossi, assurto in ogni angolo del panerà a simbolo del riscatto italiano. Un successo inaspettato che regalò a un’Italia appena uscita dall’incubo del terrorismo una ventata di ottimismo anche fuori dagli orizzonti sportivi.
Iniziò male l’Italia, con tre grigi pareggi (Polonia, Perù, Camerun), che consentirono il passaggio al turno successivo solo per la miglior differenza reti sugli africani. La squadra era bersagliata di critiche dalla stampa. Fiorivano anche pettegolezzi inverosimili come la love story fra Cabrini e Paolo Rossi. Tanto che l’allenatore Bearzot impose il silenzio stampa. Poteva comunicare coi giornalisti solo Zoff, il capitano che per indole non amava perdere il tempo in chiacchiere.
Il sorteggio successivo, che ci assegnò due giganti come Argentina e Brasile, sembrava condannarci a una quasi certa eliminazione. Invece gli azzurri di colpo rifiorirono. Sconfissero prima per 2-1 gli argentini di Maradona. E poi eliminarono anche il Brasile (3-2) con la tripletta di Paolo Rossi. Poi iniziò la discesa verso la gloria mentre in Italia esplodeva l’entusiasmo per la Nazionale risorta. Ci sbarazzammo della Polonia in semifinale (2-0). E vincemmo con relativa facilità anche la finale (3-1) con la Germania Ovest. “Campioni del mondo”, sancì per tre volte Nando Martellini (il più sobrio dei telecronisti) con una gradazione di decibel insolita imposta dall’emozione.
Fra le immagini più significative del trionfo spicca l’urlo di Tardelli, autore del secondo gol. L’euforia del presidente Sandro Pertini, seduto in tribuna d’onore al fianco del re di Spagna. Il carosello impazzito dei tifosi italiani nelle piazze di Madrid. La storca partita a carte sull’aereo del ritorno fra Pertini, Bearzot, Zoff e Causio. Con la Coppa appena conquistata sul tavolo.
MESSICO, 1986. Fu una sede di ripiego (si era già giocattoli mondiale del 1970) dopo la rinuncia per problemi interni della Colombia). Fu il mondiale di Maradona, della “mano de dios” (il gol segnato con il pugno e in un’epoca ancora preistorica rispetto al Var) nei quarti di finale contro l’Inghilterra. Bissato dal “gol del secolo”, quando Maradona scattato da centrocampo dribblò in progressione cinque-sei avversari prima di concludere in rete. La rivincita calcistica della sconfitta militare nella guerra delle Falkland.
In finale, poi, l’Argentina trionfò contro la Germania Ovest per 3.2). Cronaca o leggenda vuole che l’allenatore dell’Argentina Bilardo, alla vigilia, abbia caricato a dovere Maradona spiegandogli la tattica da adottare contro i tedeschi davanti a una pizza fumante. Semplicemente spostando con la forchetta i pezzi di mozzarella e le acciughe.
L’Italia difese svogliatamente il titolo. Pareggio nel girone preliminare contro Bulgaria (1-1) e Argentina (1-1), vittoria di misura su Corea del Sud (3-2). Sconfitta contro la Francia (2-0) nei quarti. Bearzot, uomo d’onore, si dimise nonostante avesse altri quattro anni di contratto. E l’Italia fece le valige lasciandosi mestamente alle spalle un mondiale allietato dall’allegria contagiosa dei messicani.
ITALIA, 1990 – E’ il mondiale delle “notti magiche inseguendo un gol”, diffuse in ogni angolo del Belpaese dalle voci di Edoardo Bennato e Gianna Nannini. Era un’Italia dal soldo facile che due anni dopo si arenò nello scandalo di Tangentopoli. Comparvero quell’anno i primi cellulari che gli arrampicatori meno abbienti affittavano per far colpo con le ragazze. Una stagione di grandi sogni, in cui l’Italia, allenata da Azeglio Vicini, partì fra le favorite. Nel primo turno batté di misura (1-0) prima l’Austria e poi gli Stati Uniti. Nel terzo incontro superammo per 2-0 la Cecoslovacchia. Furono decisivi i gol di Schillaci, astro nascente. Negli ottavi ci sbarazzammo dell’Uruguay (2-0). Nei quarti dell’Eire (1-0).
Si giunse cosi al momento di maggior tensione: la semifinale contro l’Argentina nella Napoli di Maradona che proprio quell’anno era stato determinante per il secondo scudetto nella storia della squadra partenopea .
Spaccanapoli. Per la grande sfida il tifo cittadino si divise in due blocchi. Chi per i colori nazionali chi per l’idolo cittadino. La partita fini 1 a 1 e rimase in parità anche nei tempi supplementari. Il momento si fece drammatico ai calci di rigore. Fu proprio Maradona a segnare il gol decisivo (5-4) il punteggio finale, fra il delirio di metà stadio argentinizzato per amore del pibe de oro e lo scoramento dell’altra metà che pure continuava a volergli bene. l’Italia si consolò con il terzo posto conquistato contro l’Inghilterra (2-1)
In finale, poi, l’Argentina perse 1-0 su rigore contro la Germania Ovest sulla via della riunificazione con l’Est (era già caduto il muro). Prima della partita il pubblico della stadio Olimpico fischiò l’inno argentino. E Maradona sibilò velenosamente verso gli italiani: “hijos de p*ta”.
STATI UNITI, 1994 – Primo mondiale in terra di profani. Devoti al loro football e al baseball gli americani consideravano all’epoca il calcio uno sport stravagante e un po’ noioso, con colpi di scena (gol ed emozioni, quando c’erano) troppo dilatate. C’era chi considerava lo 0-0 solo una perdita di tempo o, peggio, un attentato allo spettacolo. Le leggende urbane riferivano di tornei periferici in cui gli arbitri sembravano usciti dall’iconografia del Far West: con pistole caricate a salve al posto del fischietto per garante la correttezza del gioco. Gli stadi furono almeno in parte riadattati dagli impianti di baseball. Gli appassionati americani di sport seguirono il torneo con curiosità per la nuova frontiera ma senza entusiasmarsi. La sensibilità oggi è notevolmente mutata, soprattutto in campo femminile dove nel soccer gli Stati Uniti sono una potenza. Nel ’94 il mondiale Usa sembrava in ogni caso appartenere alla categoria dello “strano ma vero”. Ma lo scopo della Fifa era quello di conquistare alla causa del dio pallone anche quel ricchissimo continente. Obiettivo parzialmente riuscito.
L’Italia allenata dal guru Arrigo Sacchi (quasi più un filosofo che un trainer) era pure stavolta nel lotto delle favorite. Partì male perdendo 1-0 coll’Irlanda. Ma poi si qualificò stentatamente vincendo con la Norvegia (1-0) e pareggiando con il Messico 1-1). Anche negli ottavi l’Italia è in affanno: elimina in maniera un po’ rocambolesca la Nigeria (2-1) ai supplementari. Ai quarti gli azzurri fanno fuori in maniera altrettanto avventurosa (2-1) pure la Spagna. Va meglio soprattutto grazie a Baggio la semifinale contro la Bulgaria anche se il punteggio (2-1) rimane striminzito. La finale a Pasadena è contro il Brasile (rivincita di Messico ’70). Con una temperatura di 36 gradi ne esce una delle finali più soporifere della storia. Non segna nessuno e si va ai rigori. Per noi sbagliano Baresi, Massaro e Baggio che continuerà a rimproverarselo per tutta la vita. Il Brasile vince 3-2 e conquista il quarto titolo mondiale. Gli sportivi americani seguirono tra gli sbadigli.
FRANCIA, 1998 – Fu il trionfo provvisorio della multietnicità in una Francia che vinse il suo primo titolo schierando una squadra con un gran numero di immigrati naturalizzati. Una calcio momentaneo al razzismo, anche nella scelta della costruzione dello Stade de France (il tempio della finale) in un’area contigua con una delle banlieues più turbolente. Fu anche un’affermazione di eleganza, dimensione mai trascurata dai transalpini con un’organizzazione sobria ma di buongusto.
L’Italia, allenata da Cesare Maldini, faticò anche questa volta a carburare. Pareggio col Cile (2-2), Vitoria col Camerun (3-0), successo con l’Austria (2-1). Nei quarti eliminiamo la Norvegia per 1-0. Ma poi il sorteggio ci riserva un ostacolo quasi insormontabile: proprio la Francia, i lanciatissimi padroni di casa. Finisce 0-0, si va ai supplementari poi ai rigori. Il romanista Di Biagio, specialista nei penalties, sbaglia proprio l’ultimo. Sugli spalti riservati agli ospiti Massimo Giletti si prodiga ad asciugare le lacrime dei piccoli tifosi italiani che si sono dipinti in faccia i segni del tricolore.
La Francia tira dritta fino alla finale in cui umilia il Brasile con un secco 3-0. Due giorni dopo, per la festa nazionale, la Nazionale multietnica sfila in pompa magna sui Champs Elysées. La grandeur è salva.
GIAPPONE; COREA DEL SUD, 2002 – Il processo di colonizzazione del grande cacio sbarca in Asia, con un campionato bicefalo. Parte delle gare in Giappone, parte in Corea del Sud. Il football è già molto popolare in queste lande ma nei tornei nazionali mancano i grandi campioni che finalmente si assoni ammirare dal vivo.
L’Italia, secondo tradizione, strappa una qualificazione al cardiopalma giocando sempre in Giappone. Batte (2-0) l’Ecuador, perde (2-1) con la Croazia, pareggia (1-1) con il Messico. Seconda nel girone è costretta a trasferirsi in Corea del Sud per affrontare i padroni di casa. Un ostacolo tecnicamente non insuperabile. Ma a Daejon ci mette lo zampino l’arbitro ecuadoriano Byron Moreno che espelle senza gravi motivi Totti, è indulgente coi fallo da vera espulsione dei coreani e indirizza il risultato verso la qualificazione degli asiatici (vittoriosi 2-1 dopo tempi supplementari). L’arbitraggio di Moreno fu giudicato il più scandaloso di tutti i mondiali. Lui fu radiato (anche se dice che se ne andò lui). Poi ebbe guai giudiziari e finì pure in galera negli Stati Uniti. I suo errori non li ha ma riconosciuti. La sua partigianeria fece uscire dai gangheri anche Trapattoni, uomo di fede e di misericordia, che era abituato prima delle partite ad aspergere il terreno di gioco con una boccetta di acqua santa.
Il Brasile del “fenomeno” Ronaldo ai aggiudicò il quinto titolo battendo in finale per 2-0 la Germania. Nei giorni prima della vigilia fummo invitati da un ristoratore italiano a un pranzo per il compleanno di Michael Platini. Le roi delineò per sommi capi le nuove frontiere commerciali a cui era obbligato a piegarsi il grande football. Il calcio stava cambiando.
GERMANIA, 2006 – L’Italia ripete il miracolo di Madrid. Sfavorita perché scossa da Calciopoli, un ciclone che proprio durane la manifestazione investe gran parte della rosa. Lippi, l’allenatore, ha l’accortezza di isolare i giocatori dai veleni e di farli concentrare di volta in volta solo sugli avversari.. Da underdog l’Italia batté il Ghana (2-1), pareggio con gli Usa (1-1) e sconfisse la Repubblica Canore (2-0), Negli ottavi vittoria risicata per 1-0 sull’Australia con rigore di Totti quasi al termine della partita. Poi la squadra, come in Spagna, decolla. Ai quarti batte facile l’Ucraina (3-0) e in semifinale compì suo capolavoro eliminando con una superiorità evidente la Germania per 2-0 ai supplementari.
In finale, la Francia nello stato berlinese delle Olimpiadi di Hitler Partita contratta e tesissima che passerà alla storia per la testata di Zidane a Materazzi (l’immagine iconica del mondiale che provoca la sua espulsione). Nei tempi normali finisce 1-1. Dopo i supplementari si va ai rigori. Ed è Grosso, quasi un gregario, a segnare il gol del 5-3 che portò il quarto titolo mondiale.
L’Italia esplose festeggiando l’epopea al Circo Massimo. Cannavaro, il capitano, confessò di aver dormito tutta la notte abbracciato alla Coppa. Ricordo che nella confusione del dopopartita Ignazio La Russa vagava intorno allo stadio in cerca di un mezzo per tornare in centro. Dopo vari tentativi sembrò sul punto di rinunciare e si sedette per terra.
BRASILE, 2014. Brevissima e quasi comica la comparsata degli azzurri, guidati da Prandelli, in Brasile. Eliminati già al primo turno dopo la vittoria iniziale contro l’Inghilterra (2-1) e la duplice sconfitta per 1-0 contro Costarica e Uruguay (due pesi minimi o medi). Un disastro, il bis del fiasco quattro anni prima in Sudafrica.
L’evento clou fu la sconfitta per 7-1 in semifinale del Brasile contro la Germania a Minas Gerais. Un’umiliazione feroce che riapri le ferite del mondiale perso in casa nella finale contro l’Uruguay Uruguay (1950). Precipitando l’intero paese dall’euforia alla depressione. In finale la Germania batte l’Argentina per 1-0 in una partita di rara bruttezza. Il Brasile sembra oggi risorto. Per l’Italia c’è ancora molta strada da fare, anche se meno di due anni fa abbiamo vinto un europeo.
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Se il marziano fosse sbarcato sulla Terra nel 1974, allora sì che avrebbe ragione di meravigliarsi per lo strano mondiale in Qatar.