Era tutto vero. La contrattura all’inguine, la smorfia, la sofferenza, la coscia sinistra fasciata: Novak Djokovic si ritira alla fine di un tiebreak vissuto allo spasimo con Alexander Zverev, epilogo del primo set durato un’eternità. Il numero due del mondo gli stringe la mano, lo abbraccia e vola in finale a Melbourne. La sua terza finale Slam dopo quelle perse a New York nel 2020 e al Roland Garros lo scorso anno.
La fine del match è un colpo di scena del tutto inatteso, che lascia gli spettatori allibiti. Nole perde con una volée in rete il tie break del primo set, e fra lo sconcerto del pubblico va a salutare l’avversario, imbraccia la borsa e infila il tunnel senza voltarsi, seguito da qualche sibilo di disapprovazione. È il rivale tedesco a chiedere per lui l’onore delle armi: “Non fischiate chi da vent’anni dà tutto a questo sport, è stato capace in passato di vincere due volte il torneo nonostante un infortunio. È un mio amico, il giocatore che più rispetto. Mi ha aiutato tanto quando ho avuto io un grave incidente alla caviglia e non posso dimenticarlo”.
Un bel gesto di fair play e vittoria comunque meritata malgrado le imperfette condizioni del serbo – “In campo non avevo percepito le sue difficoltà”, avrebbe spiegato Zverev con franchezza. Djokovic aveva cominciato senza il beneficio del servizio, rimasto evidentemente negli spogliatoi: quattro prima su venti sono niente per uno come lui, per solito molto attento a non concedere spazio agli avversari. Forse sorpreso dalle quattro palle break immediate a suo favore, sull’uno a uno il tedesco ha sbagliato due volte con il rovescio, la specialità della casa. Un dritto steccato gli è poi costato il game e un piccolo trauma psicologico. Perché subito dopo si è trovato lui a dover rintuzzare tre occasioni consecutive per il break, annullate peraltro con grande autorità: servizio vincente, due ace (sarebbero stati otto in totale) e tre smash di fila che l’hanno rimesso prontamente in carreggiata.
Si è capito subito che sarebbe stata una lotta corpo a corpo. La ragnatela degli scambi dal fondo ha spento i fuochi d’artificio iniziali, così scesa dalle montagne russe la partita s’è incanalata sui binari più lineari della manovra. Come da copione sempre in spinta e mai a scapito della precisione. L’equilibrio è sembrato però spezzarsi sul 4-4 con la quinta palla break concessa dal Diavolo, senza che Zverev ne approfittasse. Ormai lo schema era delineato: maggiore aggressività del tedesco e paziente lavoro di tessitura del serbo, con qualche sortita in avanti di entrambi come unica variante. Si è arrivati quindi al logico tiebreak dopo un’ora e undici minuti in apnea, nel caldo opprimente del primo pomeriggio australiano.
L’equilibrio è continuato fino a un momento chiave nel settimo punto, quando Sasha ha evitato il pericolosissimo minibreak con un ace di seconda: che coraggio. Nole non ha fatto una piega, piazzando a sua volta una bomba vincente e un lob perfetto che ha scavalcato il metro e novantotto centimetri del Pennellone di Amburgo: 5-4. Zverev però ha replicato da campione, ancora con la sua formidabile prima e il dritto in spinta che l’hanno issato a set point. Dj s’è concentrato, ha tirato la prima a uscire correndo svelto in avanti: s’è ritrovato con una palla comoda a mezz’altezza, da chiudere con una volata di rovescio per lui elementare. Invece l’ha messa in rete. Un disastro. Niente però a confronto con quel che è successo nell’attimo successivo. A capo di un’ora e venti minuti di partita, Djokovic ha detto basta, ha salutato e se n’è andato. Gli era chiaro che la rimonta sarebbe stata impossibile.
A quel punto la scena è stata tutta per Zverev, con lo sguardo già a domenica. “Sono felicissimo del risultato, ho lavorato molto per arrivare in finale”, ha detto al microfono di Jim Courier. E alla domanda su chi avrebbe preferito incontrare ha risposto: “Vedrò la sfida tra Shelton e Sinner. Ben servirà a 240 orari e Jannik risponderà come se gli arrivasse addosso una farfalla”. Molto chiaro no?