Un video di dodici minuti. Una poltrona bianca e l’uomo seduto che esce lentamente dal buio fissando la telecamera. Per raccontare punto per punto un calvario, il dolore e la gloria mescolati come in un film di Almodovar. Rivelando il lato più oscuro dello sport professionistico: il prezzo del successo che può essere altissimo. “Non riesco a camminare e a salire le scale senza soffrire. Il ginocchio mi fa male quando guido, mi fa male quando vado a dormire e mi giro sul fianco. È un incubo senza fine”. Juan Martin Del Potro, 36 anni compiuti a settembre, è un campione del tennis moderno. Lo è stato. Numero tre del mondo, 22 titoli nel circuito maggiore, 419 match vinti in carriera, il trionfo agli US Open del 2009 surclassando Nadal e superando in una battaglia di quattro ore Roger Federer, che deteneva il titolo ininterrottamente dal 2004: una delle partite più belle ed emozionanti del secolo. E le semifinali a Wimbledon e al Roland Garros, le due medaglie olimpiche a Londra e a Rio. Ha guidato l’Argentina alla conquista della Coppa Davis per la prima volta nella storia: era il 2016, l’entrata nel Pantheon de los inmortales accanto a Maradona, Messi, Fangio, Monzon, Ginobili.
La prima palla servita a velocità siderali, il dritto tirato piatto a tutto braccio che per gli avversari è — era — un’esecuzione capitale. Un colosso alto 197 centimetri per 97 chili di peso definito il Gigante buono, per la potenza nei colpi unita alla gentilezza del carattere. E poi c’è il secondo soprannome, che più dell’altro ne evoca il destino: la Piedra de Tandil, il posto dov’è nato. È una roccia di granito da 300 tonnellate che la natura ha poggiato in miracoloso equilibrio sul bordo di una collina. Sospesa senza cadere. Così è lui, un macigno sul filo del rasoio. Perché la cattiva sorte prende di mira quelli giovani e forti. E picchia duro, se vuole. Le conseguenze iniziali sono state tre operazioni al polso sinistro fra il 2014 e il 2015, il ritiro obbligato dal circuito fra le lacrime. Ma Juan Martin non si arrende e risorge clamorosamente l’anno dopo, prendendosi l’argento ai Giochi e la Davis: “Sono tornato”, urla al cielo. Ma il peggio è in agguato dietro l’angolo.
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Un dio cattivo si materializza sul cemento di Shanghai, ottobre 2018. Una caduta, la frattura della rotula, la sosta forzata ai box, l’ennesimo tenace rientro in pista. Finché ecco la seconda lesione allo stesso ginocchio destro, l’estate successiva sull’erba del Queen’s. “Quando mi sono operato a giugno, il medico disse che in un paio di mesi sarei guarito. Firmai per tre tornei indoor a fine anno”. E invece è andata diversamente. “Ho dovuto affrontare altri otto interventi, eseguiti da chirurghi di fama internazionale”. Si è rivolto anche al professore svizzero Roland Biedert, il luminare che aveva aiutato Federer e Stan Wawrinka a risollevarsi da infortuni simili. “Credevo sinceramente di farcela. Ogni volta sotto anestesia pregavo che il problema fosse risolto. Sto ancora cercando una soluzione”, racconta DelPo amaro.
L’ultimo match ufficiale è datato 2022 contro Federico Delbonis. “Nella conferenza stampa di presentazione spiegai che non ce ne sarebbero stati altri. Non ne potevo più della gente che mi fermava chiedendo: quando torni a giocare? Senza dirlo a nessuno il giorno dopo sono salito sull’aereo per la quinta operazione in Svizzera. Sono stato due mesi in una clinica vicino a Basilea per la rieducazione. Non ha funzionato e così mi sono ritrovato di nuovo sotto i ferri negli Stati Uniti. E ancora una riabilitazione con cento iniezioni alla gamba, all’anca, alla schiena. Da allora non ho più resi pubblici gli interventi: volevo essere lasciato in pace”.
Come sta adesso? La testimonianza è drammatica. “Al mattino quando mi sveglio prendo sei o sette pillole. Protettori gastrici, antinfiammatori, antidolorifici, ansiolitici perché il corpo che si ammala trasmette i segnali al cervello innescando crisi di panico. Le pasticche mi hanno fatto ingrassare, sono stato costretto a eliminare certi cibi dalla mia dieta”, spiega. “Un conto sono le pietre su cui puoi inciampare, ogni atleta mette in conto gli infortuni. Ma il dolore emotivo, quello forse è anche peggio”. Un fine pena mai. “Non posso giocare a calcio, non posso giocare a padel. Quando mi invitano a una partita sono quello che porta il mate e resta seduto a bordo campo a guardare, ho l’incarico di fare le riprese con il telefonino. Mi è stato tolto ciò che amavo di più: il tennis. È molto difficile. È frustrante. Ci sono momenti in cui non ho più forza. Devo fingere, anche se sto malissimo”.
Il presente è fatto di dubbi. “Secondo alcuni medici con una protesi al titanio potrei riacquistare una discreta qualità di vita. Altri sostengono che per un innesto del genere è meglio aspettare di compiere cinquant’anni. E nel frattempo cosa faccio? Vorrei che tutto questo finisca: non ha senso vivere così”. La chusura è lo specchio di un uomo alle corde: “Mi sentivo potente e capace di resistere a tutto. Non ce l’ho fatta, ho perso la partita: il ginocchio mi ha battuto”. Triste, solitario y final. Domenica prossima a Buenos Aires giocherà — proverà a giocare — l’incontro d’addio con Djokovic. “Nole è stato generoso nell’accettare l’invito”, sorride DelPo. Quindi aggiunge: “Spero di presentarmi nella miglior forma possibile davanti ai tifosi argentini. Non sarà un evento o uno show. E’ amore, è ricordo. Sarebbe bellissimo se per due ore potessi sentirmi libero e felice. Senza dolore sul campo da tennis, che è la mia vita”. L’ultimo tango di passione per un grande campione.