Quarantasette anni fa, a Santiago del Cile, Nicola Pietrangeli alzò al cielo la prima insalatiera della storia del tennis italiano. Era il capitano della squadra, il più anziano di team azzurro composto da Adriano Panatta (che aveva appena vinto il Roland Garros), Corrado Barazzutti e Paolo Bertolucci.
Nel ’76 Pietrangeli aveva già 43 anni e i suoi due titoli Slam, vinti sulla terra rossa di Parigi nel biennio ’59-’60, lo avevano reso da tempo il tennista italiano più vincente di sempre. Un riconoscimento che lui, nato a Tunisi e trasferitosi a Roma dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale che gli rasero al suolo la casa, ha sempre sfoggiato con orgoglio e sicurezza. Almeno fino a quando sulla scena è arrivato Jannik Sinner.
A 22 anni l’altoatesino ha già sfiorato alcuni trofei pesanti, di quelli che ti proiettano con forza nell’albo dei più grandi. Come le ATP Finals, sfuggite in finale contro il solito Djokovic che si è portato a casa la settima coppa. Un finale di stagione che quest’anno lo ha visto vincere quattro tornei, tra cui il master 1000 di Toronto.
È per questo che qualche settimana fa, parlando di Sinner, Pietrangeli lo definì “un bravo ragazzo, ma per superare me non gli basteranno due vite”. Una frase che Jannik, osannato sul podio di Malaga dopo aver portato l’Italia a rivincere la Davis con il successo su Djokovic in semifinale salvando tre match point, non deve aver ancora dimenticato.
Lo dimostra lo sguardo lanciato dal numero 4 del mondo a Pietrangeli mentre saliva sul podio per congratularsi con la squadra capitanata da Filippo Volandri. “Io dico che rappresentare il proprio Paese è il massimo dell’aspirazione di uno sportivo – diceva sempre Pietrangeli commentando la scelta di Sinner di rinunciare al girone di qualificazione di Davis contro Canada, Cile e Svezia – è un onore comunque, a prescindere dal risultato. Chi rifiuta per poi andare a giocare un torneo altrove andrebbe squalificato”.
Il tuo sguardo quando a Natale si imbuca il parente che odi…#Sinner #CoppaDavis #pietrangeli pic.twitter.com/g6GGm2vcFS
— andrea lucatello (@andlucatello) November 27, 2023
Ieri, alla fine, sorridevano entrambi, uniti da una Coppa che ha riportato il tennis sulle prime pagine dei quotidiani italiani dopo anni di dominio del calcio. Sinner, già corteggiato da grandi brand che lo riempiono di milioni di dollari (quest’anno dovrebbero essere 20), con i suoi capelli rossi e i fan che lo seguono per il mondo vestiti da carota (erano presenti anche agli US Open di New York) ha iniziato a trainare il movimento. La sfida contro De Minaur che ha regalato il punto decisivo all’Italia ha collezionato in tv, tra Rai e Sky, oltre sei milioni di telespettatori. Numeri riflessi anche sui social, dove il profilo Instagram dell’altoatesino è passato in poco tempo da 500.000 o altre un milione e trecentomila follower.
A impressionare di Sinner e tenere incollati allo schermo è l’esplosività dei fondamentali. Partendo dal servizio, il colpo sul quale ha lavorato di più, il tennis di Sinner appassiona l’Italia pur non rientrando nei canoni tradizionali del “bel gioco”. Non è fantasioso come quello di Panatta, né imprevedibile come quello di Fognini o stilisticamente piacevole come quello di Musetti. Sinner ha però una qualità che nessuno, a questi livelli, ha mai avuto in Italia: la lucidità tecnica e tattica quando il punto conta davvero.
Non c’è da stupirsi se i siti di scommesse lo stiano tenendo d’occhio e lo mettano già tra i primi favoriti per la vittoria degli Australian Open 2024. In fondo tutti sanno che, se non in Australia e magari non nel 2024, Sinner almeno uno Slam prima o poi lo porterà a casa. È solo questione di tempo e di abitudine a un tipo di match, quello tre set su cinque, che necessita un approccio molto diverso rispetto a quello di partite tradizionali che si giocano per la maggiore nel circuito.
La prossima stagione sarà per Sinner la più complessa. Con tutti gli occhi puntati addosso, dovrà reggere la pressione delle attese e confermare o migliorare la posizione nel ranking mondiale, smentendo chi ancora si ostina a chiamarlo “ragazzino”.